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Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, insieme al Presidente della Repubblica di Turchia, Recep Tayyip Erdoğan

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LA VISITA di Draghi in Turchia darà sicuramente ulteriore impulso alle relazioni economiche tra i due Paesi, che da decenni vantano economie piuttosto interconnesse (l’interscambio commerciale annuo è di circa 20 miliardi di Euro). Dobbiamo però leggere la missione del nostro Presidente del Consiglio, unitamente alla metà dei ministri del nostro Governo – a significare l’importanza della visita –, in un quadro ben più ampio. Avviene ad un anno di distanza della nota dichiarazione di Draghi in cui definiva Erdogan un dittatore; in questa prospettiva, sancisce una presa di coscienza del ruolo della Turchia nello scacchiere geopolitico internazionale, a prescindere dai rapporti tra persone.

La missione è anche successiva alla visita di Draghi a Washington in cui immaginiamo che tra i temi discussi vi fosse il ruolo della Turchia nel quadro del drammatico conflitto in Ucraina; in questa prospettiva, il dialogo bilaterale tra Italia e Turchia può essere interpretato come l’espressione di una convenienza reciproca – tra Occidente e Turchia – a portare avanti iniziative finalizzate ad un reciproco avvicinamento; il ruolo di Draghi, in questo senso, è stato quello di rappresentante autorevole non solo degli interessi italiani ma di quelli del Patto Atlantico. Non era un fatto scontato al momento in cui Putin ha deciso di autorizzare l’aggressione dell’Ucraina, anzi in molti ritenevano che Erdogan si sarebbe spostato sempre più verso est.

Nei fatti, soprattutto nelle prime settimane, la Turchia ha tenuto una posizione molto ambigua: da un lato, sosteneva l’Ucraina con l’invio di armi, dall’altro ha assunto un atteggiamento neutrale rispetto alla condanna dell’aggressione russa in Ucraina. Era questa una posizione non agevole dettata dagli interessi economici detenuti da Ankara nei confronti di entrambi i Paesi coinvolti nel drammatico conflitto e da esigenze politiche, ovvero il sostegno all’Ucraina come misura di (parziale) contenimento del possibile espansionismo russo nei territori limitrofi al Mar Nero.

Il protrarsi della guerra sta probabilmente determinando un cambio di priorità da parte del Presidente Erdogan. Molteplici i motivi alla base di questo mutamento di prospettiva; tra gli altri, vi sono: (i) l’interesse di Ankara di diventare area di transito di gasdotti verso l’Europa; (ii) la necessità di definire un assetto vantaggioso nel Mar Mediterraneo, approfittando insieme all’Italia, del fatto che gli interessi di molteplici paesi sono ovviamente spostati ad Est; (iii) la percezione che uno spostamento verso i Paesi dell’UE possa portare molti più vantaggi economici rispetto, ad esempio, ad un relazione commerciale troppo sbilanciata verso una debole Russia; (iv) la necessità di approvvigionamento di armi sul fronte occidentale, visti i (modesti) risultati ottenuti dall’esercito russo nella campagna di Ucraina.

Questa (probabile) virata verso Ovest di Ankara determina ovviamente, per simmetria, importanti ripercussioni su Federazione Russa e Cina. Il rapporto tra Mosca e Pechino è in verità sempre stato complicato. Forti sono gli interessi economici: l’interscambio tra i due paesi è stato nel 2021 pari a quasi 35 miliardi di dollari – la Russia è il terzo partner commerciale della Turchia – dove giocano un ruolo chiave sia le importazioni di gas da Mosca che l’imponente flusso di turisti russi che si dirige sulle coste dell’Anatolia per le vacanze.

D’altro lato, è del tutto evidente la competizione che è in atto tra i due paesi su più piani: entrambi sono impegnati su fronti opposti in alcuni conflitti (Siria e Libia, in primis) dove cercano di estendere la rispettiva area di influenza, si guardano di traverso nei territori costieri del Mar Nero con l’obiettivo di stabilire un equilibrio di forze.

In questo quadro, il protrarsi della guerra (e delle sanzioni) sta spostando il pendolo di Ankara verso ovest in virtù dell’oggettivo indebolimento economico e isolamento geopolitico di Mosca, che ha ormai poche leve a disposizione e ancora meno soldi per rappresentare un partner realmente interessante per l’ambizioso Erdogan.

La Turchia ha invece  bisogno di partner affidabili dal punto di vista economico e politico in virtù della debolissima economia interna e della criticità sociale interna indotta dalla presenza dei profughi siriani ormai additati dalla popolazione locale come la causa di tutti i mali. La Federazione Russa risulterebbe in questo modo doppiamente perdente: destinata a diventare junior partner della Cina e sempre meno temuta dalla Turchia nel quadro degli equilibri sul Mar Nero e in Africa.

Con riferimento alla Cina, vi è da rilevare che l’attivismo di Erdogan sui fronti della mediazione di pace e della crisi del grano crea più di un problema. A dispetto del pensiero prevalente, il conflitto in Ucraina non è stato affatto gradito da Pechino, che ha visto – in relazione all’amicizia senza confini dichiarata con Mosca – la sua immagine in Occidente ulteriormente deteriorata dopo il colpo del Covid.

L’atteggiamento di Erdogan porta dunque ad aumentare il prestigio e il ruolo della Turchia come mediatore di pace credibile, togliendo spazio a Pechino che si troverebbe ad essere naturalmente associata alla Russia senza avere realmente perseguito questo obiettivo e con tutte le implicazioni negative conseguenti.

In questo senso, questo attivismo di Ankara potrebbe spingere la Cina ad entrare in campo nell’opera di moral suasion nei confronti di Putin perché sospenda le ostilità e avvii un tavolo negoziale. La Cina ha bisogno – per motivi economici – di ritagliarsi un ruolo più equilibrato rispetto all’Occidente: tutto è avvenuto troppo in fretta e troppo presto per i cinesi. Anche su questo fronte, Putin, ha sbagliato mossa.


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