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Una delle recenti proteste in Cina contro il lockdown

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Dopo oltre due anni di rigida applicazione della politica di tolleranza zero al Covid, il Partito Comunista cinese decide di cambiare registro: è ora possibile affrontare la quarantena all’interno delle mura domestiche (prima era necessario recarsi nei Covid Hotel allestiti dal Partito) e non è più necessario esibire un tampone negativo per prendere i mezzi pubblici; agli esponenti locali del Partito è stato infine richiesto di evitare il ricorso a lockdown.

Questo repentino cambio di politica sanitaria avviene a poco più di un mese dalla chiusura del XX Congresso del Partito in cui si erano ancora una volta celebrati i successi della gestione del Covid in salsa cinese: in particolare, veniva sbandierato l’irrisorio numero di morti rispetto a quanto verificatosi nel cosiddetto mondo occidentale. Occorre a questo proposito considerare che la politica a tolleranza zero era diventata una sorta di gabbia per Xi Jinping: era stata talmente sbandierata come chiave di superiorità rispetto a Usa e Europa che era diventato ormai molto difficile cambiare prospettiva nonostante le sempre più negative implicazioni economiche; basti pensare che il PIL nel terzo quadrimestre di quest’anno è cresciuto solo del 0,4% – quando la crescita prevista per il 2022 è del 5,5% – essenzialmente a causa dei continui fermi produttivi conseguenti alle chiusure imposte dai governi locali a fronte di poche decine di casi di positività riscontrati.

Quali le ragioni di questo improvviso cambiamento? Le proteste in strada di cittadini ormai esausti da due anni di vita in quasi clausura: occorre infatti considerare che fino all’altro giorno era molto difficile spostarsi da una città all’altra e che molto frequentemente e, all’improvviso, veniva richiesto alla popolazione di non uscire di casa. In particolare, il Partito Comunista – abituato a gestire manifestazioni di piazza che sono sempre avvenute a livello locale – si è spaventato per il carattere pressoché nazionale – i cittadini di tutte le più importanti città della Cina hanno manifestato – e trasversale – non era solo una questione di studenti – della protesta. Il Politburo ha in altre parole temuto che potesse scoppiare una protesta di difficile gestione ed è corso tempestivamente ai ripari.

Non deve essere stata una decisione facile; il nostro pensiero non può che andare a Tocqueville che nell’opera Rivoluzione e l’Antico Regime scrive che i regimi dispotici si reggono sulla convinzione della superiorità dei governanti, che sanno di più e meglio cosa è giusto fare e cosa no. Secondo questa chiave interpretativa il Partito dovrà gestire il cambiamento senza perdere la faccia e senza creare un pericoloso precedente per cui il Partito modifica il suo pensiero in nome di proteste popolari; in effetti, la narrativa che è stata individuata è quella di un Covid che non è più pericoloso come nel passato e pertanto non sono più necessarie le misure restrittive adottate in questi anni, da qui la saggezza del Partito.

Con questo allentamento della propria politica sanitaria, la Cina riprenderà certamente a crescere in misura vigorosa: infatti, le fabbriche funzioneranno a pieno ritmo, la gente tornerà a viaggiare e la domanda interna riacquisirà forza: ne beneficerà il Paese, ne trarranno vantaggio le imprese straniere per due motivi: in primo luogo, per la possibilità di ritornare a vendere a pieno ritmo prodotti in quello che è uno dei più importanti mercati su scala globale; in secondo luogo, per la possibilità di evitare quei continui fermi impianto (negli impianti localizzati in Cina) che hanno ripetutamente messo in crisi le catene di fornitura mondiali.

Vi sono tuttavia anche delle ombre (cinesi) dietro questa nuova prospettiva di gestione del Covid. In primo luogo, vi sono da considerare le ripercussioni a livello locale in termini di diffusione dei contagi: la Cina vanta infatti una minore incidenza della campagna vaccinale rispetto ai Paesi occidentali (ricorrendo peraltro a vaccini meno efficaci) e presenta un sistema sanitario largamente deficitario rispetto ai paesi sviluppati; in questo quadro, il periodo di vacanza del capodanno cinese – dove oltre 1,3 miliardi di persone si spostano per raggiungere i parenti – potrebbe rivelarsi un incubo per il Partito Comunista.

Vi è in secondo luogo da tenere in conto che la ripresa del motore economico cinese potrebbe innescare un innalzamento della dinamica inflattiva su scala globale: in questa prospettiva, la crescita dei consumi di materie prime e di combustibili fossili innescata dal funzionamento a pieni giri della fabbrica del mondo potrebbe indurre la Fed e la BCE a non allentare la morsa della crescita dei tassi di interesse, innescando così un ulteriore raffreddamento nelle già deboli economie dei Paesi occidentali. Viviamo insomma tempi interessanti, forse troppo.


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