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Distruzione nella Striscia di Gaza

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Cosa hanno ottenuto otto settimane di bombardamenti israeliani su Gaza? Due mesi dopo il pogrom di Hamas in Israele del 7 ottobre, la domanda scuote l’opinione pubblica internazionale, soprattutto quella che riconosce allo stato ebraico il diritto a difendersi. Pochi i capi di Hamas colpiti, l’organizzazione terroristica non sembra affatto sradicata, come si proponevano la pioggia di bombe e i blitz via terra dell’Idf, l’esercito israeliano. Migliaia invece le vittime tra i civili, oltre 15 mila secondo le autorità della Striscia. Secondo l’Onu l’80% della popolazione di Gaza, un milione e seicentomila persone su due milioni, è ormai sfollata, ovvero ha perso tutto e non sa più dove andare.

Durante la tregua ormai archiviata sono stati rilasciati 80 ostaggi israeliani. L’accordo prevedeva la liberazione di tre palestinesi imprigionati per ogni ostaggio rilasciato e alla fine sono stati 240 i palestinesi usciti dalle carceri israeliane, principalmente donne e minori, molti dei quali erano stati arrestati senza essere mai formalmente accusati. A loro si aggiungono 23 cittadini tailandesi, un filippino e un cittadino con doppia cittadinanza israelo-russa, liberati nell’ambito di negoziati separati al di fuori della tregua.

Le autorità israeliane stimano in 120 il numero degli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi, sulla cui sorte non c’è alcuna certezza, come dimostra anche l’interruzione della trattativa per liberarli. Se qualcuno è rimasto vittima dei bombardamenti, altri sono nelle mani di organizzazioni come la Jihad, su cui nemmeno Hamas esercita un controllo. Il governo di estrema destra di Benjamin Netanyhau, durante un incontro avvenuto il 5 dicembre scorso, riferisce la Reuters, è stato accusato dai familiari degli ostaggi di non aver fatto abbastanza per liberarli. Il premier è sotto accusa sia per la mancata capacità di prevenzione del massacro del 7 ottobre, del quale, secondo un documento pubblicato dal New York Times, i servizi segreti israeliani erano a conoscenza, sia per l’inefficacia della risposta ad Hamas.

I militari adesso, dopo aver ottenuto in gran parte il controllo del nord, si sono spinti nella parte meridionale della Striscia di Gaza, con combattimenti ancora più intensi dei precedenti. Hanno circondato la città di Khan Younis, da dove i medici palestinesi dichiarano che gli ospedali non riescono più a curare i feriti e le scorte di viveri e farmaci stanno finendo.

Secondo L’Institute for the Study of War, con sede a Washington, i combattenti di Hamas stanno utilizzando ordigni esplosivi improvvisati e mine antiuomo, mentre i combattimenti diventano più ravvicinati. Israele ha dichiarato di aver perso 84 soldati dall’inizio delle operazioni. Nel frattempo, l’ipotesi di allagare con l’acqua di mare i tunnel in cui si nascondono i terroristi non entusiasma nemmeno l’opinione pubblica israeliana, come riporta il Jerusalem Post, preoccupata che all’interno possano trovarsi ancora degli ostaggi.

Inoltre gli esperti ambientali del ministero della Difesa, citati dal Times of Israel, hanno avvisato che a causa dell’enorme quantità di acqua richiesta per l’operazione, già in parte avviata, l’acqua di mare è penetrata nella falda acquifera e si è mescolata con la poca acqua dolce rimasta, al punto che il 97% dell’acqua dolce di Gaza non soddisfa più gli standard di qualità dell’acqua dell’Oms. Israele all’inizio dell’assalto a Gaza aveva chiuso tre condutture che trasportavano acqua potabile nella Striscia, per poi riaprirne due sotto la pressione degli Stati Uniti.

Dubbi sull’efficacia delle operazioni israeliane rispetto agli obiettivi dichiarati provengono soprattutto dagli Usa, il principale alleato dello stato ebraico. L’amministrazione Biden si pone il problema del dopo e preme affinché la rappresentanza moderata palestinese dell’Anp, guidata da Abu Mazen, prenda il controllo amministrativo della Striscia e vengano poi avviati i colloqui per arrivare alla soluzione dei due Stati. Netanyhau ha respinto con disprezzo la proposta.

“Finché io sarò premier”, ha specificato, e probabilmente sa che non lo sarà a lungo: la sua permanenza al potere, contestata in patria e fuori, è legata all’unità nazionale che si è creata dopo i massacri del 7 ottobre. Gli Stati Uniti hanno avvertito Israele in conversazioni definite “dure” e “dirette”, parole non abituali per la diplomazia, che le forze di difesa israeliane non possono replicare a sud della Striscia le tattiche devastanti utilizzate nel nord e devono fare di più per limitare le vittime civili.

Il Pentagono ritiene che solo a fine gennaio Israele passerà a una strategia a bassa intensità e ipermirata, che colpisca militanti e leader specifici di Hamas. Il tempo a disposizione di Israele per continuare l’operazione nella sua forma attuale e mantenere comunque un significativo sostegno internazionale sta rapidamente diminuendo. Il segretario alla Difesa Lloyd Austin, intervenendo al Reagan National Defense Forum il 2 dicembre scorso, ha ammonito Israele che può “vincere nella guerra urbana solo proteggendo i civili”.

Un’opinione rafforzata da provvedimenti poco incisivi sul piano pratico ma politicamente significativi, come la decisione di negare il visto d’ingresso negli Usa ai coloni israeliani responsabili di violenze in Cisgiordania. Se l’operazione era mirata a colpire Hamas, se vuole essere credibile l’obiettivo di isolare il terrorismo e non alimentare l’estremismo contro Israele, dopo due mesi non può continuare con altre stragi di migliaia di civili.

Anche la politica israeliana si pone il problema del dopo invasione e lo scontro interno è soltanto iniziato. L’ex premier Ehud Olmert, conservatore, intervistato dall’Osservatore Romano ha criticato la mancanza di strategia di Netanyahu, contro il quale martedì scorso è ripreso il processo che lo vede imputato per corruzione. Olmert, condannato in passato per le stesse accuse che oggi vedono alla sbarra Netanyhau, diede il via nel 2008 alla “operazione piombo fuso”, attacco contro Hamas nella Striscia, che costò 1.500 vittime.

Oggi propone una forza di interposizione internazionale a Gaza, che consenta l’istituzione di una nuova amministrazione civile e negozi sulla soluzione dei due Stati. Al momento è anche l’unica proposta che guarda al futuro, in linea con la dichiarazione di Biden del 5 dicembre scorso, secondo cui “due Stati rappresentano l’unica “soluzione disponibile” per la Gaza del dopoguerra”. Ma per il momento di certo c’è soltanto che le bombe hanno ripreso a mietere vittime civili a Gaza.


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