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Mario Draghi durante una sessione in remoto del Consiglio d'Europa

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Se si vuole essere realisti al limite del cinismo va ricordato che il governo Draghi, a maggior ragione dopo l’affaire Quirinale, era comunque una soluzione a breve termine. Il clima di provvisorietà era direttamente proporzionale alle smanie elettorali in particolare di alcuni soggetti politici che lo appoggiavano (Cinque Stelle e Lega su tutti).

Ha dunque poco senso “piangere sul latte versato”, così come stilare la lista dei responsabili. Da Conte a Salvini, passando per Berlusconi e Letta, l’ordine dei “colpevoli” dipende dalla sensibilità politica di chi la stila. Al netto di tutto ciò lo scenario del “dopo Draghi” è stato solo anticipato rispetto alla primavera prossima.

LA FINE DI UN’ERA

Come hanno sottolineato in maniera unanime tutti i principali quotidiani europei, si tratta della “fine di un’era” in grado di provocare uno choc negativo per l’intero continente. E questo in particolare perché la Germania di Scholz (per ragioni legate alla dipendenza energetica dalla Russia e industriale dalla Cina) e la Francia di Macron (dopo il mezzo passo falso delle elezioni legislative) non sembrano fornire una guida salda per l’Unione europea.

Con Draghi a Palazzo Chigi l’Italia si era tramutata nell’asse portante del tentativo di uscita dalla pandemia e dalla successiva crisi economica e nel più fedele alleato agli Usa nella sua rinnovata partnership euro-atlantica sull’onda dell’aggressione russa all’Ucraina.

Il passaggio per l’Italia da leader continentale potenziale a malato dell’Europa può essere rapido quanto brutale. E questo, in prospettiva, potrebbe erodere alla radice quella solidarietà europea alla base della rivoluzione del Recovery fund. Anche perché, e le recentissime scelte della Bce lo confermano, la presenza di Draghi al governo costituiva la necessaria garanzia sul “rischio Italia”. Svanita la garanzia, che ne sarà della solidarietà dei partner europei?

Ebbene, al netto di queste considerazioni e degli scenari dell’incerta e inedita campagna elettorale estiva, su un punto vi è assoluta certezza: la prossima tranche da 20 miliardi che Roma dovrà incassare è condizionata a una serie di riforme. E se la futura coalizione di governo (di centro-destra, dicono i sondaggisti più titolati…) non dovesse andare in questa direzione, una nuova crisi piomberebbe sul Paese, non arriverebbero i denari e servirebbe un “nuovo salvatore” dopo i “due Mario” del 2011 e del 2021.

Ed è su questo punto che occorre forse soffermarsi, allargando lo sguardo dalla crisi del nostro Paese a quella complessiva delle cosiddette liberaldemocrazie euro-occidentali. Il caos italiano, la sua transizione infinita e il cantiere di riforme mai completate, è solo la punta di una piramide, è il più clamoroso segnale di una complessiva e patologica situazione di drammatica assenza di leadership politiche o, verrebbe quasi da dire, di talenti impegnati in politica.

LA CRISI DELLE LEADERSHIP TRADIZIONALI

Cercando di essere più espliciti, questo primo quarto di XXI secolo si sta caratterizzando per una crisi del liberalismo che non sembra più in grado di presentare grandi uomini o grandi donne e addirittura pare aver esaurito anche quelli decenti.

Senza polemica e senza pensare di essere esaustivo, l’elenco delle leadership mediocri fa una certa impressione. Pensiamo al Regno Unito, giunto sino alla fallimentare Brexit e alla serie di comparse proposte dal 2010 (Cameron-May-Johnson). La Germania del “gigante Merkel” (ammesso che la storia la giudicherà tale…) ha partorito l’incolore Scholz. Che dire del trittico iberico Zapatero-Rajoy-Sanchez? Prima di trovare la carta Macron, a parere di chi scrive l’unico prodotto politico di spessore e con qualcosa da proporre per provare a scuotere le liberaldemocrazie insieme al troppo bistrattato Matteo Renzi in Italia, Parigi è passata dall’isteria iper-presidenziale di Sarkozy alla flemma del presidente normale Hollande.

Ma lo specchio sul quale si riflette ogni drammatica mancanza del liberalismo di inizio XXI secolo è senza dubbio Washington. Perso il carattere propulsivo del primo mandato di Obama, la sola potenza in grado di competere da un punto di vista tecnologico, militare, ma anche economico e culturale, con l’ampia e variegata coalizione antidemocratica a guida sino-russa, ha offerto uno spettacolo politico a dir poco desolante. Il punto più basso è stato senza dubbio il tycoon alla Casa Bianca. Ma il “tutto fuorché Trump” ha prodotto l’attuale imbarazzante ticket, composto da un onesto quanto stanco pensionato della politica e da una maldestra quanto arrogante e divisiva impolitica.

Dunque una delle domande più scottanti che impone l’uscita di scena di Mario Draghi in Italia è forse questa: perché questa tremenda crisi di leadership politiche competenti, talentuose e visionarie? Una domanda che ne sottintende un’altra: siamo certi che il problema sia solo dal lato della domanda politica (l’elettorato che sceglie nelle ultime ventiquattrore prima del voto o che si astiene massicciamente o che infine opta per i partiti del “vaffa” o della soluzione semplicistica) o forse una grave patologia sta oramai erodendo quello dell’offerta? È possibile fare qualche ipotesi sul perché di questa situazione?

Tra le tante ipotesi sono due quelle che si vogliono avanzare. Da un lato lo scardinamento e la destrutturazione di ogni principio di autorità, di ogni meccanismo di promozione sociale per via educativa e meritocratica ha condotto da una parte alla mortificazione del talento, e dall’altro a esercitarlo in maniera quasi esclusiva sul fronte dell’arricchimento personale.

Anche in termini di accumulo di potere, il grande finanziere piuttosto che il grande magnate dell’high tech, è percepito come leader influente ben più di un capo di Stato e di governo, anche se guida una delle prime economie globali. Dall’altro lato bisogna chiamare in causa la politica ai tempi dei social media e in generale in balia della rete.

LA SCOMPARSA DELLA “OPINIONE PUBBLICA”

L’eclissarsi degli spazi tradizionali della competizione politica (anche di quelli mediatici tradizionali, cioè carta stampata, radio e tv) e la loro sostituzione con il mondo della rete ha portato alla scomparsa del lievito delle liberaldemocrazie, cioè alla morte dell’opinione pubblica, sostituita da una democrazia del pubblico che struttura e destruttura leadership politiche con una facilità e soprattutto una velocità impressionanti.

Senza una pausa o perlomeno un’inversione di tendenza rispetto a queste due patologie, l’ennesima crisi italiana costituirà soltanto l’anticipazione di un più complessivo crollo delle liberaldemocrazie euro-occidentali che, con i loro difetti e le loro carenze, restano comunque il migliore (e unico) scudo da contrapporre a ogni genere di autoritarismo e totalitarismo che, in un modo o nell’altro, considera oramai quello cinese il modello da imitare. C’è da sperare che la tragica estate italiana possa essere un monito, piuttosto che un’anticipazione.


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