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Giorgia Meloni e Matteo Salvini

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Giancarlo Giorgetti non ha mai amato il Mes, lo ha anche esplicitamente nei mesi passati. Eppure quando lunedì si è ritrovato all’Eurogruppo ha garantito per l’Italia. Il ministro dell’Economia, leghista di rito “draghiano”, ha detto esplicitamente ai colleghi degli altri Stati che l’Italia non farà le bizze e ratificherà la riforma del Meccanismo europeo di stabilità e non resterà isolata.

Il segnale è arrivato forte e chiaro alla Commissione europea, al punto che il vicepresidente Valdis Dombrovskis ha dichiarato: «Sembra esserci qualche progresso, speriamo quindi di poter confermare la ratifica».

GIOCHI FATTI PER IL MES

Il governo starebbe già lavorando a un testo con il quale avverrà la ratifica del Parlamento. Lo schema di massima prevede che, una volta scritto, il testo verrà inoltrato alla commissione Affari esteri. E da lì in poi inizierà l’iter parlamentare che ai piani alti di Montecitorio prevedono possa durare un mese o poco più.

Insomma, è tutto deciso. Il rebus rimane soltanto la risoluzione di maggioranza che accompagnerà il testo del governo, perché dovrà tenere insieme la posizione aperturista di Forza Italia e quella euroscettica della Lega e di FdI. L’ipotesi più accreditata sul tavolo è che non ci sarà alcun automatismo di richiesta della linea di credito, nemmeno per quella dedicata alle spesa sanitaria.

Sia come sia, la premier è consapevole che non sia percorribile un’altra strada. Si tratta dunque dell’ennesima retromarcia. Ed è per tal ragione che l’inquilina di Palazzo Chigi ha richiesto un tempo aggiuntivo, in modo da far metabolizzare la riforma a Fratelli d’Italia, da sempre scettica sulla questione e alla Lega di Salvini.

A via Bellerio siedono gli irriducibili, come Claudio Borghi che continua a ripetere frasi di questo tenore: «Il mio nome sulla ratifica non ci sarà mai. Questo nuovo trattato del Mes è peggiore del precedente».

MATTEO ALL’ANGOLO

In questo caos che attraversa la maggioranza e la Lega, cosa fa Matteo Salvini? Il vicepremier in carica ha sempre teorizzato il motto “No-Mes”, ma ora si ritrova il “suo” ministro dell’Economia garante dei rapporti con l’Europa e la premier a dover abbozzare, anche se è sempre strenua oppositrice del Mes. Ragion per cui il capo del Carroccio è agitato e confuso sul da farsi.

«Non ha più il tocco magico», teorizza chi frequenta Salvini da vicino. Le prova tutte, ma con scarsi risultati. Ha cercato di farsi largo nelle ore dell’arresto di Matteo Messina Denaro. Non a caso è stato il primo a rilasciare dichiarazioni per la fine della latitanza del superboss di Castelvetrano. In fondo, Matteo Salvini è così: vuole arrivare per primo.

Lunedì mattina, quando scoccano le 9.40 minuti, il vicepremier e ministro alle Infrastruttura diffonde un dispaccio di questo tenore: «Dopo trent’anni di latitanza è finito in manette il superboss Matteo Messina Denaro. È con profonda emozione che ringrazio le donne e gli uomini dello Stato che non mi hanno mai mollato, confermando la regola che prima o poi anche i più grandi criminali in fuga vengono braccati e assicurati alla Giustizia. È una bella giornata per l’Italia e che serve da ammonimento per i mafiosi: le istituzioni e i nostri eroi in divisa non mollano».

Il leader della Lega anticipa di nove minuti la premier Meloni, che dice la sua alle 9.49. È tutta qui l’agitazione e la frenesia di un capo partito che non accetta di non essere più il faro della coalizione del governo. Raccontano in Transatlantico, con una certa malizia, che «Matteo avrebbe voluto prendere il primo volo di Stato per Palermo per ringraziare uno a uno i componenti del Ros». Si è trattenuto dal farlo, ma in quegli attimi avrebbe preferito sedere ancora al Viminale, postazione che gli avrebbe consentito di precipitarsi nel capoluogo siciliano per prendersi la scena.

I SONDAGGI SULLA LEGA

«È in difficoltà, Matteo» è il refrain che ricorre nei palazzi che contano. I sondaggi fotografano una Lega stabilmente attorno all’otto per cento. E dunque ancora lontana dalla soglia psicologica del 15%, il minimo sindacale per un partito che ha cercato di diventare nazionale e che nel 2019 ha superato nettamente il 30% alle elezioni europee.

«È in difficoltà ed è anche accerchiato» aggiungono altri che conoscono il leader. Accerchiato dai governatori del Nord che desiderano tornare al vecchio schema di gioco: un partito territoriale che tuteli il Settentrione e che si intesti battaglie come l’autonomia differenziata. Ed è isolato all’interno del governo, perché Giorgetti ha fatto asse con l’inquilina di Palazzo Chigi. Non ha una sponda nell’Esecutivo, né dentro il partito.

Per di più: non ha potuto nemmeno esultare quando ieri la Procura di Milano ha archiviato l’indagine per corruzione internazionale nella vicenda sui presunti fondi russi alla Lega. Cui si aggiunge il dettaglio che proprio Salvini non è stato mai oggetto di indagine, evidenziando «che non sono emersi elementi concreti circa il fatto che il medesimo, ovvero Salvini, abbia personalmente partecipato alla trattativa o comunque abbia fornito un contributo causale alla stessa».


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