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Enrico Letta e Giuseppe Conte

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Finiti i grillini cosa è rimasto del grillismo? A leggere il regolamento approvato a maggioranza dalla direzione dem, su proposta del segretario nazionale, la stagione segnata dall’avvento dei pentastellati, lascerà scorie evidenti.

Una su tutte: l’idea che la politica non sia uno strumento per cambiare la società e produrre trasformazioni. Bensì l’accezione negativa: il Parlamento come fonte di arricchimento personale, privilegio di pochi. Un concetto perverso, penetrato a fondo, difficile da sradicare, una delle cause della crescita dell’assenteismo.

Non un servizio al Paese, un’attività cruciale, che attiene alle capacità e all’etica civile di ogni parlamentare. Ma il contrario. Al punto che persino una forza politica strutturata come quella guidata da Enrico Letta ha sentito il bisogno di regolamentare il diritto alla candidatura e stabilire la durata massima del mandato elettorale in 15 anni, 3 lustri.

Più che un regolamento è un breviario, un elenco di codicilli che in altri tempi avrebbe fatto inorridire i nostri padri costituenti, e che, se applicati alla lettera, li avrebbe esautorati seduta stante.  «Non sono candidabili – si legge – coloro che abbiano ricoperto la carica di parlamentare nazionale per più di 15 anni consecutivi, salvo richiesta di deroga da parte degli interessati da sottoporre al voto della direzione».

Non siamo al web, alla piattaforma Rousseau, al logaritmo che doveva garantire la democrazia diretta e che invece si è rivelata un fiasco assecondando tutti – fatalità proprio tutti – i desiderata del capo. Ma quasi.

C’è infatti qualcosa peggiore che non avere regole: Farle per poi aggirarle. I governatori che hanno modificato lo statuto regionale per potersi concedere una terza opportunità ne sanno qualcosa. Senonché in questo caso il problema è un altro: il valore che si dà all’impegno politico. Se prevale l’idea populista, il pregiudizio che fare politica sia accumulare vantaggi a scapito della collettività, ecco che la manomissione è compiuta. Accettarlo stabilendo un turn-over tra pochi eletti, a prescindere dai meriti, è una colpa non da poco. Vuol dire smarrire il significato originario, far proprio il luogo comune, accreditare l’immagine del poltronificio. Fissiamo un limite perché abbiamo una percezione disonesta di chi chiamiamo a rappresentarci. Non importa se si dimostrerà capace e onesto, se si metterà al servizio del bene comune e sarà una risorsa per il territorio e per i suoi elettori. Scaduto il tempo deve e farsi da parte. Il che introduce anche un secondo aspetto: chi si potrà permettere di fare politica sapendo che comunque vada nell’arco di un certo numero di anni dovrà trovarsi un altro lavoro?

Con il mandato ad orologeria la storia del nostro Paese – e non solo del nostro – probabilmente sarebbe stata molto diversa. Non stiamo parlando del presidente della Repubblica o di un’altra altra carica che potrebbe falsare il gioco dei pesi e contrappesi che tengono in equilibrio una democrazia. Ma dei singoli rappresentanti. Impadronirsi delle dinamiche non è cosa semplice. Gestire una commissione, presentare un disegno di legge, conoscere l’iter parlamentare. L’esperienza conta. In Transatlantico come in azienda.

Si può essere eletti in Parlamento per più di 3 legislature senza però restare incollati alla poltrona. Di esempi virtuosi ne abbiamo tanti.

Si dirà: ma Il sistema della cooptazione rimane. Certo, ma in un Paese normale questo fa parte di un processo interno ai partiti, alla loro capacità di rinnovarsi, ai loro valori, gli stessi per i quali verranno votati o non votati dagli elettori. Nel caso del Pd la scelta delle candidature dovrà avvenire dopo «un confronto con i segretari regionali e le presidenti dei gruppi parlamentari della Camera e del Senato e valutare «le proposte pervenute dai segretari regionali”. Il che – inutile negarlo – spesso si traduce in una distribuzione di quote tra le correnti.  

Le distorsioni ci sono e sono tante. Poi ci sono le variabili “grilline”: incandidabili «coloro che ricoprono la carica di sindaco di un Comune sopra i 20.000 abitanti: i componenti degli organismi esecutivi e assembleari delle Regioni, fatta eccezione per le Regioni che si trovino nell’ultimo anno di legislatura e i casi nei quali la direzione nazionale conceda, su richiesta del segretario nazionale, una deroga espressa». È il caso, ad esempio, del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti che si candiderà alla Camera e in caso di elezione si dimetterà.

Fatta la regola, insomma, è subito scattata la prima deroga. Una deroga già prevista e concessa «automaticamente» a coloro i quali ricoprono o abbiano ricoperto la carica di segretario nazionale, di presidente del Consiglio dei ministri e di ministro della Repubblica».   Il regolamento dem ha raccolto il sentiment grillino ma è andato anche oltre. Ha fatto suo anche quel tanto di demagogia che trasforma ogni norma in un contro regolamento. Il segretario volendo, infatti, può a suo piacimento proporre «dirigenti politici di rilievo nazionale e personalità espressione di importanti realtà della società italiana e portatrici di competenze, ovvero indicate da altre forze politiche con le quali il Pd abbia stretto accordi politico elettorali».  L’importante è che ci sia un regolamento. Ma anche che si possa fare tutto e il contrario di tutto.  Come ci hanno insegnato i grillini, appunto.


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