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Matteo Renzi in Senato

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Con 167 voti favorevoli e 76 contrari, il Senato si è espresso a favore del conflitto di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale contro la procura di Firenze che ha condotto le indagini su Matteo Renzi, nell’ambito dell’inchiesta Open. La decisione arriva dopo che la giunta per le immunità del Senato aveva sollevato la questione sulla base della relazione della senatrice di Forza Italia Fiammetta Modena, approvata a maggioranza nel dicembre scorso. In sostanza, secondo la relazione della giunta, i pm fiorentini hanno violato le prerogative parlamentari previste dalla Costituzione, con il sequestro di dispositivi elettronici a soggetti vicini a Renzi e con l’acquisizione di conversazioni che coinvolgevano il leader di Italia Viva, quando questi era già senatore, senza chiedere la preventiva autorizzazione al Senato.

Siamo di fronte a un semplice principio di civiltà. La Costituzione e la legge stabiliscono che i magistrati non possano sequestrare la corrispondenza di un parlamentare senza chiedere prima l’autorizzazione alla Camera a cui il parlamentare appartiene. L’articolo 68, tra le varie garanzie a tutela della libertà degli eletti, specie nei confronti del potere giudiziario, dispone la necessità di una autorizzazione da parte della Camera di appartenenza “per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza”. Ovvio che, dai tempi in cui la Costituzione è stata scritta, il concetto di corrispondenza abbia conosciuto un’evoluzione tecnologica. La corrispondenza, pertanto, non è più soltanto quella tradizionale in formato cartaceo, ma può essere anche elettronica ed è costituita da mail, sms, chat. Anche queste conversazioni devono quindi ritenersi coperte dal divieto costituzionale di acquisizione.

Nel novembre scorso, Matteo Renzi aveva depositato in giunta una ricca documentazione per provare che il pm di Firenze aveva violato l’articolo 68 della Costituzione. La memoria del senatore conteneva, nell’ordine: quattro mail ricevute da Renzi nell’agosto 2019, a lui inviate dall’imprenditore Marco Carrai e acquisite senza previa autorizzazione; una nota della polizia giudiziaria in cui si riferisce del decreto di acquisizione del suo intero estratto conto bancario del periodo 2018-2020; l’acquisizione dei messaggi Whatsapp scambiati con l’imprenditore Vincenzo Ugo Manes in occasione di un viaggio a Washington nella tarda primavera del 2018; infine, l’acquisizione dei messaggi scambiati con Carrai. La relazione della Giunta delle immunità su cui il Senato si è espresso ricorda che tutte queste iniziative del magistrato inquirente avrebbero dovuto essere autorizzate dal Senato preventivamente.

Di fronte al quadro qui delineato, Giuseppe Conte, leader del M5s, ha anticipato il voto contrario dei senatori grillini spiegando che “bisogna difendersi nel processo e non dal processo”. Una spiegazione davvero sorprendente, specie se pronunciata da un giurista che, viceversa, avrebbe dovuto sgombrare il campo da ogni equivoco.

Il Senato, infatti, non è stato chiamato in causa per impedire lo svolgimento del processo. Non può farlo, così come non può farlo la giunta delle elezioni e delle immunità. Nemmeno il conflitto di attribuzioni deve essere confuso con l’attivazione dell’immunità parlamentare. I senatori non sono stati chiamati a decidere se uno di loro debba essere processato, né vi era nessuna richiesta in tal senso da parte di Matteo Renzi, il senatore indagato. Il Senato doveva valutare una eventuale lesione delle prerogative parlamentari (e di conseguenza delle prerogative di un senatore) che non possono essere travolte nemmeno dalla magistratura. Proprio perché servono per garantire l’esercizio delle funzioni delle assemblee legislative e dei loro membri. In pratica, sollevando il conflitto di attribuzioni, il Senato si rivolge alla Corte Costituzionale per chiarire: “se le mail e i messaggi di whatsapp potevano essere sequestrati dovevamo deciderlo noi”. Quale che sia il nome del senatore travolto dalla tracimazione della iniziativa dei magistrati.

Ma c’è di più. Non c’è alcun dubbio che la magistratura debba svolgere le sue indagini. Tuttavia, non può raccattare ogni tipo di informazione senza rispettare le norme costituzionali e le prerogative del parlamento. Sappiamo che cosa può succedere un minuto dopo: tutte le informazioni relative all’indagato finiscono in pasto ai giornali. La pubblicazione della lettera di Tiziano Renzi al figlio nei giorni scorsi sta lì a dimostrare una gravissima deriva. La mediatizzazione del processo penale, ormai, è diventata la malattia mortale della giustizia italiana. E se il sistematico abuso dei propri poteri da parte dei giudici è diventato un pericolo serio per i politici – che possiamo ancora considerare dei potenti – figuriamoci per i cittadini comuni. Per esempio: è giusto controllare i conti correnti per accertare l’esistenza di operazioni scorrette. Ma ciò non autorizza a dare gli estratti conto in pasto ai giornali. Si tratta di forme di tutela elementari ma basilari che valgono per tutti: non solo per i parlamentari, che hanno strumenti più potenti per difendersi, ma soprattutto per i cittadini comuni che rischiano di finire in balìa degli abusi di un potere giudiziario incontrollato e straripante.

Sul punto fa chiarezza Stefano Ceccanti, deputato dem e costituzionalista, che ieri ha invitato i senatori a leggere la relazione della giunta “prescindendo dal nome di Renzi e dal concreto caso giudiziario, come se fosse un parlamentare ignoto”. Secondo Ceccanti, appare evidente che “l’iniziativa del potere giudiziario sposta palesemente i confini dei rapporti tra poteri, violando l’articolo 68 della Costituzione”. L’episodio richiama un analogo tentativo di forzare i confini del rapporto tra i poteri, quello che vide protagonista la procura di Palermo contro il Presidente Napolitano. In quel caso, ricorda Ceccanti, “la forzatura, il tentativo di riscrivere in modo riduttivo i poteri della Presidenza della Repubblica, fu respinto dalla Corte Costituzionale con la sentenza 1/2013”.

Insomma, “la materia non lascia dubbi di sorta: è il momento di difendere il Parlamento e l’articolo 68 della Costituzione” e ogni senatore dovrebbe “presidiare i confini delle prerogative del Parlamento contro questa pesante invasione di campo”. Un invito raccolto dal Pd che, sul caso, ha rotto l’asse con il M5s e con Leu. Conte ha assicurato che il voto contrario dei Cinquestelle non va letto come un voto “contro un singolo senatore ma per difendere valori e principi del m5s”. Valori e principi che, evidentemente, non coincidono con quelli iscritti nella Costituzione.


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