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Matteo Renzi visto dal Fastidioso

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“Non c’è niente che mi fa godere di più di quando mi dicono che sono morto”. Matteo Renzi è così: gli piace dimostrare che è determinante. L’ha fatto tre volte in due anni e mezzo di legislatura. Prima sbarrando la strada all’accordo col M5S e favorendo la nascita del Conte uno gialloverde. Poi aprendo una voragine sotto le ambizioni di Matteo Salvini, svolgendo la parte di mallevadore del Conte due giallorosso. Infine mandando l’Avvocato del popolo a schiantarsi sul muro dei “Costruttori” a palazzo Madama, e inaugurando l’autostrada che ha portato Mario Draghi a palazzo Chigi con l’avallo del Quirinale.

Uno che pensa di sé quelle cose e pratica da vincente il risiko della guerriglia parlamentare, come può assoggettarsi ad uno scenario nel quale – come continuamente gli sbattono in faccia i suoi avversari – conta zero nella maggioranza di unità nazionale dopo essere stato così decisivo in quella di centrosinistra? Infatti non è così. Intanto c’è il crocevia fondamentale dell’elezione del successore di Sergio Mattarella e c’è da giurare che Renzi riproporrà – si vedrà se con lo stesso successo o meno – lo schema dell’asso pigliatutto, del king maker delle scelte ultime.

E poi per saggiarne le intenzioni (cosa assai utile per quelli che lo adorano come per i tanti che lo detestano), bisogna mettersi nel suo angolo visuale e compulsare da lì il quadro politico in via di trasformazione. Provando magari a recuperare quella che uno dei pochi che sulla politica continuano a ragionare come Claudio Petruccioli, a suo tempo definì la “strategia dei due pedali”, obbligatoria per non fare la fine di re Pirro, condottiero dei Molossi, il primo e famosissimo dei vincitori senza successo.

Il primo pedale è naturalmente quello politico. E qui l’ex sindaco di Firenze non ha bisogno di insegnamenti. Aveva in arsenale un missile con doppia testata che ha centrato entrambi i bersagli: far arrivare alla presidenza del Consiglio il personaggio più disgregante per l’alleanza M5S-Pd-Leu; provocare uno smottamento nelle ex forze di governo ridimensionando il ruolo di Giuseppe Conte, calamitatore di consensi nell’area moderata e per questo strenuamente difeso, fin quasi ad identificarsi con lui, dal Nazareno. Adesso però bisogna cambiare registro.

Per distinguersi, Renzi deve mettere in campo idee e proposte che ridisegnino il profilo identitario della forza che guida. L’appuntamento del prossimo autunno di Renew Europe alla Leopolda, preceduto da altri sulla medesima lunghezza d’onda, deve servire a questo: a riempire di futuro il carniere di Italia Viva. Già. Ma per quanto si giri e si rivolti, come può una forza del 2-3 per cento puntare a risultati così ambiziosi e allo stato inevitabilmente circonfusi di velleitarismo?

Beh, qui potrebbe soccorrere l’altro pedale, quello istituzionale. L’idea di riunire sotto lo stesso tetto come avviene in Europa l’area liberal-democratica rimpolpandola con spruzzate di ecologismo, progressismo, riformismo è stata a accolta gelidamente dai potenziali partner. Si capisce. Non solo perché l’opa egemonica di Renzi azzererebbe le aspirazioni di altri che intendono amalgamare quell’elettorato, ma anche perché la stragrande maggioranza di questi aspirano a un meccanismo elettorale proporzionale che esalta le differenze e il ruolo delle forze minori.

Infatti il punto è questo. Se l’ancoraggio di Iv (o quel che diventerà) è il presidente francese Emmanuel Macron diventa impossibile non far riferimento al piedistallo istituzionale che quell’esperienza ha portato al successo: il sistema elettorale a doppio turno. Cui fa da corollario il semipresidenzialismo: ma davvero così si corre troppo.

La legge elettorale al contrario è sul tappeto. Il Pd e altri accusano l’ex premier di aver prima detto sì al proporzionale e poi aver innalzato talmente tante barriere da confermare l’etichetta di sfasciacarrozze inaffidabile che gli è stata appioppata. È vero. Ma altrettanto vero è che per dare un minimo di concretezza alle aspirazioni, realistiche o meno, di Renzi il proporzionale è arsenico. Mentre il doppio turno costringe ad aggregazioni anche spurie ma che diventano obbligate per non risultare subalterni e al dunque impotenti. Non a caso quella del doppio turno è la stessa trincea su cui si è attestato l’altro Matteo, che dal fronte opposto ha la medesima necessità di aggregare attorno a sé uno schieramento potenzialmente maggioritario.

Dunque la riforma elettorale diventa lo spartiacque dove Renzi presumibilmente si attesterà per rendere meno immateriali i suoi progetti. Con l’obiettivo non di svuotare Forza Italia come molti sostengono, ma proprio il Pd, come invece lui ha sempre sostenuto. Naturalmente quella elettorale è materia molto delicata e assai poco attrattiva dal punto di vista dell’opinione pubblica. Ed è certamente possibile che alla fine non se ne faccia nulla e si vada a votare (ecco un altro punto fondamentale: quando?) con l’attuale Rosatellum. Anche in vista di questo sbocco Renzi deve calibrare le sue mosse.

Con un pizzico di ironia, si potrebbe ricordare il vecchio motto dei comunisti d’antan per cui in Italia bisognava “fare come in Russia”. Allo stato attuale, il motto renziano potrebbe essere “bisogna fare come in Francia”. Nel primo caso non è (fortunatamente) andata bene, e i cosacchi non si sono abbeverati nella fontana di San Pietro. Nel secondo le difficoltà non mancano, al punto da apparire quasi insormontabili. Per bilanciare, non mancano nemmeno la disinvoltura e l’abilità manovriera di chi si è messo col pantografo a disegnare progetti e aspirazioni per l’Italia che verrà.


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