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Il segretario della Lega, Matteo Salvini

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Mentre Draghi cerca di risolvere i problemi di una campagna vaccinale che non riesce a decollare con le modalità che sarebbero necessarie, i principali partiti della sua ampia coalizione continuano a fare il lavoro consueto: ciascuno si guarda il proprio ombelico. I partiti minori, che in questo caso sono tanti, al momento si accontentano delle posizioni governative che hanno ottenuto, consapevoli che di più non possono avere.

In verità tutti i movimenti in corso vanno letti nell’ottica delle prossime scadenze elettorali, perché sarà in quel contesto che ogni forza politica cercherà di trarre vantaggi dalla sua partecipazione all’avventura del governo di tregua istituzionale (tregua politica chiesta da Mattarella, ma che si guardano bene dal prendere sul serio).

Del resto sarà nel quadro delle campagne elettorali per le amministrative che i piccoli partiti contano di far pesare la loro presenza. Quello medio, cioè Forza Italia, per il momento sta a guardare, consapevole di aver guadagnato non poco grazie agli scontri in atto fra i grandi.

La Lega sarebbe il partito che guadagna di più dalle turbolenze che interessano M5S e PD, non fosse che il suo leader non riesce proprio a rinunciare al vecchio stile demagogico. Vedendola dall’esterno, una componente che ha un suo rispettato esponente, Giorgetti, in posizione chiave per lavorare alla soluzione del rifornimento delle dosi di vaccino, dovrebbe baciarsi i gomiti dalla fortuna che le capita.

Raccattare forse qualche futuro voto in più cavalcando le irritazioni della gente per le restrizioni che impone la pandemia non le serve un gran che, mentre rafforza le diffidenze sulla sua credibilità. Così è per l’esibizione della foto cogli esponenti leghisti al governo, che nessun altro partito ha fatto: un inutile sgarbo verso la richiesta del Quirinale di non connotare questo esecutivo con una formula politica.

L’approssimarsi delle scadenze elettorali (non si sa ancora se slitteranno dalla tarda primavera al primo autunno) stimola il cannibalismo della politica e Salvini vede probabilmente aprirsi opportunità per l’indebolirsi della alleanza fra M5S e PD, anche se il riproporre una linea barricadiera può giovare più al consolidarsi di quella alleanza che ad inserirsi nella sua crisi.

L’incognita maggiore rimane al momento l’evoluzione che possono avere i Cinque Stelle. La decisione verso cui si orientano Grillo e il gruppo dirigente pentastellato, cioè affidarsi in toto alla leadership di Conte, non si sa quanto possa dare frutti. L’ex premier ha un suo capitale di consenso, ma per ora è dipeso dalla sua capacità di gestione della macchina pubblica in una fase particolare.

Adesso però non avrà nessuna macchina da gestire, a meno che non si faccia conto sulle connessioni che indubbiamente Conte aveva stabilito durante i suoi governi coi vari “apparati” dello stato. Tuttavia quella è una base fragile su cui costruire, perché sono ambienti abituati a pesare le capacità di detenzione del potere e quelle, al momento, sono tutt’altro che buone. La forza parlamentare di M5S è indebolita non solo dalle fuoruscite, ma anche dalla scarsa affidabilità di truppe che sono state tenute molto ai margini della politica, delegata ad un gruppo piuttosto ristretto di dirigenti.

Nella prospettiva di una futura tornata elettorale nazionale, che al massimo fra poco più di due anni arriverà, la forza di M5S appare molto ridimensionata, dimezzata a stare ai sondaggi, ma se continuano le fibrillazioni attuali può andare anche peggio. E intanto ci sarà da passare il test delle amministrative, terreno poco propizio per i Cinque Stelle.

Conte ha le doti per ribaltare questa situazione, cioè per essere un leader di battaglia politica? Al momento è un’incognita. Non è certo arrivato alla posizione di premier perché aveva vinto delle battaglie, anche se forse è eccessivo dire che vi è giunto perché aveva vinto alla lotteria. Nella sua esperienza a palazzo Chigi non si è dimostrato né un federatore di forze diverse, né un trascinatore di consensi dietro a grandi visioni. Ciò non esclude che possa diventarlo, ma non è neppure garantito che accada.

Certamente se ci prova avrà bisogno di rilanciare una presenza di tipo conflittuale dei Cinque Stelle e ciò acuirebbe il problema di fronte a cui si trova il PD. La gestione della crisi che ha portato al governo Draghi non si può dire sia stata brillante. L’aver scelto la linea del sostegno al Conte ter a prescindere da tutto non è risultata vincente. Zingaretti ha ragione a ricordare che si tratta di una scelta appoggiata all’unanimità dagli organi dirigenti del partito, ma ciò non toglie che si sia rivelata sbagliata e, come si sa, c’è sempre una certa resistenza ad ammettere che si è sbagliato tutti insieme: meglio trovare qualcuno a cui addossare tutta la responsabilità.

Quel che solo adesso si comincia a dire è che in quel frangente è mancata una visione che andasse oltre la paura di compromettere l’alleanza con M5S, il che suona stonato adesso che i Cinque Stelle hanno manifestato tutta la debolezza della loro formazione.

Ai bei tempi, Berlinguer poteva spiegare il senso di una alleanza (storica?) fra il progressismo comunista e la moderazione democristiana, oggi dar credito alla trasformazione del grillismo in un partito liberale moderato (come suggerisce Di Maio) è piuttosto difficile: non perché le conversioni siano impossibili, ma perché non si vedono le fondazioni ideologiche di questa svolta (anche a prescindere dalla difficoltà di renderla compatibile con le vecchie utopie grillo-casallegiane).


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