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Enrico Letta e Matteo Salvini

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A che gioco gioca Salvini? La domanda non è peregrina, ma la risposta deve prendere in considerazione uno scenario in evoluzione e un giocatore che ama l’azzardo, per cui adatta continuamente la sua tattica di gioco.

Cominciamo dallo scenario, che a sua volta è fatto di molti elementi. Su tutti domina la volatilità della pubblica opinione, che su una cosa sembra però attestarsi: la fiducia nella persona e nell’opera di Draghi. È vero che a stare ai sondaggi anche Conte rimane popolare, ma più come quello che tutto sommato ha governato la prima fase della pandemia, non come leader a cui ci si affiderebbe oggi al posto dell’attuale premier. Salvini tiene conto di questa situazione e punta a mettere insieme il sostegno a Draghi con il ridimensionamento dei suoi meriti nella lotta alla pandemia. In sostanza, suggerisce fra le righe, l’attuale presidente del Consiglio ha fatto la cosa giusta mettendo finalmente le persone adatte a guidare la lotta alla pandemia, ma questo è servito per raggiungere gli obiettivi che ha indicato la Lega. E ciò adesso deve valere anche per tutti gli altri traguardi verso cui si deve marciare.

Non è così, ma non importa. Ormai la politica è fatta di narrazioni e ciascuno si fabbrica quella che più gli conviene, non è che gli avversari e i partner di Salvini si comportino diversamente. Ecco perché il leader leghista non ha problemi a candidare Draghi al Quirinale: perché è anche questo un gioco di narrazioni, nel concreto si vedrà. Sa benissimo che la partita per trovare il successore a Mattarella è complessa e che la rappresentazione semplicistica per cui mandato Draghi al Quirinale si andrebbe subito ad elezioni in modo da rendere possibile al centrodestra di vincerle è solo un altro racconto offerto a chi vuole crederci. Ma anche, perché no, buono a provocare reazioni nel campo avversario, un risultato che non viene mai disprezzato da chi mira a restare al centro della scena.

È per dare corpo alla sua narrazione che Salvini ha bisogno di buttare lì che le riforme non si faranno. Come sul tema delle riaperture, punta ad anticipare quello che secondo lui accadrà inevitabilmente. La sensazione che sia arduo riuscire ad imporre dei cambiamenti in materie a cui si lavora da anni pestando l’acqua in un mortaio è molto diffusa. Non a caso Salvini cita la giustizia e il fisco, sapendo che tocca argomenti su cui lo scetticismo è largamente diffuso per la consapevolezza dell’intrico di “interessi costituiti” (per dirla con Draghi) che remano contro. Tanto anche se poi qualcosa si dovesse concludere, magari anche molto, è sempre disponibile il giochetto di dire che non è abbastanza e comunque quel che si è portato a casa lo si deve alla pressione leghista (vedi la tattica dei referendum sulla giustizia).

Per il leader leghista è essenziale rimanere al centro del gioco. Forza Italia non rappresenta alcun problema, ma Fratelli d’Italia e la Meloni lo incalzano nei sondaggi senza tuttavia riuscire a dare la spallata definitiva finché rimangono nella loro riserva indiana dell’opposizione e lui può presentarsi come l’interlocutore forte di Draghi. Per ottenere questo risultato ha bisogno di essere riconosciuto pubblicamente in quel ruolo, ma per questo può contare su Enrico Letta.

Il segretario del PD ha un interesse speculare ad animare un eterno duello con quello della Lega. Avendo deciso che il suo problema è ridare identità al suo partito, non trova di meglio che costruirla sul più classico schema delle parti in commedia, la sinistra contro la destra. Non prende in considerazione il tramonto delle ideologie che a suo tempo ha consentito di espandersi al grillismo, perché vede che anche quelli sono stati costretti a ritornare allo schema classico e perché grazie alla presenza della Meloni, ma non solo, sull’altra sponda c’è chi coopera all’impresa.

Ecco allora che come conseguenza Letta deve però costantemente mettere in discussione la permanenza della Lega nella coalizione di governo, altrimenti non si spiegherebbe bene la diversità radicale delle posizioni: un elemento a cui in tempi di estrema volatilità negli schieramenti elettorali si è molto sensibili. Salvini naturalmente sfrutta questa mossa a suo favore, perché così può rafforzare la sua narrazione di essere il vero sostegno di Draghi, in quanto lo certificherebbe la volontà della sinistra di sbatterlo fuori dal governo.

Dubitiamo che in questo gioco di specchi deformanti la politica di un paese alle prese con un complicato problema di ripresa e resilienza ci guadagni. Di passaggio facciamo notare che questo incaponirsi a riproporre il dualismo politico vecchio stile fra destra e sinistra fa risaltare l’estraneità di Draghi e di quella che è la sua squadra a questo teatrino: sono uomini delle istituzioni che cercano di servire piuttosto che un’ideologia con le sue fiacche bandierine un bene comune che interessa la comunità nazionale nel suo complesso. Poi possono riuscirci o meno, possono o meno essere giudicati adeguati all’obiettivo, ma certo sparigliano le carte. E con questa scomposizione del quadro ci si dovrà misurare in futuro, specie se, come c’è da augurarsi, la pandemia sarà messa sotto controllo e la ripresa del paese si avvierà su una buona strada.

La gente ha per questi cambiamenti un intuito istintivo maggiore di quello che spesso si ritiene.


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