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Un'azienda

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Pasquale Saraceno era di Morbegno in Valtellina, come Ezio Vanoni. Morbegno è così a Nord che dalle sue finestre si vede la Svizzera, eppure Saraceno comprese fin da subito che il rilancio del Mezzogiorno era una questione nazionale e che non vi sarebbe stata nessuna ricostruzione del Paese senza una piena integrazione delle regioni meridionali nel tessuto vivo della Nazione.

IL GRANDE SPRECO

È questo lo spirito che ci deve guidare in questa lunga traversata che ci deve portar fuori dalla pandemia, non per ritrovare la passata “normalità” ma per poter far riprendere a tutto il Paese un cammino che ci porti fuori dalle sabbie mobili in cui l’Italia è caduta da almeno venti anni, venti anni in cui si è aperta un’ulteriore faglia di ineguaglianza fra le regioni del nuovo triangolo industriale e l’intero Mezzogiorno.

Non bastano a testimoniarlo i dati di bilancio sugli investimenti pubblici e sulla spesa pubblica, che in questi anni sono giunti sempre più scarsamente al Sud, ma sono i dati sugli esiti occupazionali dei ragazzi del Meridione che oltremodo preoccupano, quando segnalano che il tasso di occupazione dei giovani fra i 20 e i 34 anni con un diploma era, prima del virus, del 65,7 per cento nel Nord, ma si riduceva al 32,6 per cento nel Sud, ed egualmente nel Nord per i laureati il tasso di occupazione era del 77,6 per cento, mentre nel Mezzogiorno si riduceva al 44,3 per cento. E a riprova di questa condizione, i ragazzi che non studiavano e non lavoravano erano nell’intero Nord il 15,6 per cento, mentre nel Sud raggiungevano il 33,8 per cento. Quante risorse sprecate. Quante vite bruciate. Quante energie tolte alla Ricostruzione del Paese.

Le stesse regioni di quel nuovo triangolo industriale, che sta tra Milano, Bologna e Venezia, non possono più accontentarsi di essere il margine inferiore di un nucleo produttivo europeo sempre più rattrappito, che si allinea verso la Valle del Reno, ma debbono avere dietro di sé un Paese che nel suo insieme torni a essere portatore di sviluppo produttivo.

Certamente il reddito di cittadinanza, la cassa integrazione, le pensioni anticipate possono essere compensazioni monetarie per evitare il collasso, ma la miseria si sconfigge con la dignità del lavoro, con la ripresa di una visione che riporta nella produzione la matrice della crescita, come scriveva Saraceno settant’anni fa.

Allungare le reti di subfornitura verso il Mezzogiorno, attrarre imprese che vogliano ricollocare in Europa le loro produzioni dopo che la frettolosa globalizzazione dei primi anni duemila ha dimostrato tutta la sua fragilità, rilanciare gli investimenti nelle nuove infrastrutture digitali che possano permettere un uso anche decentrato delle grandi capacità di supercalcolo e intelligenza artificiale già presenti fra Bologna e Milano e che altrimenti resterebbero sottoutilizzate, diviene l’interesse anche di quel nucleo ormai troppo ristretto di industria nazionale, che non può rimanere confinato nelle ridotte della Val Padana.

IL MANDATO DEL PAESE

Riconquistare una dimensione nazionale per poter giocare un ruolo credibile in Europa diviene oggi il mandato di tutto un Paese, che deve dimostrare innanzitutto a se stesso che l’apertura di credito, che l’Unione – non senza fatica – ha rivolto all’Italia non si risolve in una baraonda più o meno credibile di progetti specifici, da giocare uno dopo l’altro, sperando che vadano in porto almeno in parte, ma in una visione dello sviluppo che sia basato su una nuova stagione di crescita produttiva, che vada certamente oltre il virus, ma anche oltre una stagione troppo lunga di scarse ambizioni.


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