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Il Ministro Teresa Bellanova

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Da ex sindacalista Teresa Bellanova è abituata a tirare la corda. Trattare, mediare, cercare un punto di incontro e in caso estremo rompere hanno segnato il tratto principale del suo percorso politico. Ma mai e poi mai, lei, pugliese, 62 anni, fiera del suo titolo di licenza media, avrebbe immaginato che le trattative più logoranti non le avrebbe condotte per difendere i diritti dei braccianti bensì dall’altra parte del tavolo.

A Palazzo Chigi e da ministro delle Politiche agricole. Con un compito da equilibrista: punzecchiare il traballante governo di cui fa parte, mandarlo in fibrillazione ma senza farlo affondare. Camminare su un filo, oscillare sul vuoto e non cadere. Roba da acrobati, appunto.

Ministra Bellanova, Italia Viva ha detto no al modello di Governance per il Recovery Fund. E in Senato lo ha ribadito Matteo Renzi. Ieri il premier Conte era a Bruxelles. Ci sono margini per una mediazione?
 «Guardi, ho chiesto l’altro sabato al presidente del Consiglio il testo del documento e dall’allora prima di riceverlo sono passati più di otto giorni. L’ho ricevuto nella notte tra domenica e lunedì scorso, per l’esattezza alle 2 di notte. Non c’è stato il tempo di discuterlo e del resto da quel giorno non ho più sentito il presidente Conte».
Un ministro informato solo due giorni prima di un passaggio così importante…
«Un fatto gravissimo. E lo ritengo grave anche perché questa miopia che non ci porta da nessuna parte».

Qual è il punto di caduta?
«Le risorse del Recovery Fund non sono un fatto privato e la politica non può, né deve, abdicare alle sue responsabilità. Non si può consegnare un potere di questo tipo a 6 persone che tra l’altro non si sa neanche come siano state selezionate. Per cui, e rispondo così alla sua domanda, il punto di caduta è che quel documento venga ritirato. Se verrà presentato surrettiziamente come decreto-legge in Consiglio dei ministri noi di Iv voteremo contro. Se invece verrà presentato come emendamento alla legge di Bilancio voteremo contro la legge di Bilancio».

E sarà crisi. Non la spaventa in piena Pandemia?
«Mi spaventa l’idea che in un momento di emergenza come questo, con centinaia di migliaia di posti di lavoro già persi e altre centinaia di migliaia che si tengono in piedi solo grazie alla cassa integrazione e al blocco dei licenziamenti ci si diletti con norme pericolose, un commissariamento di ministri regioni in aperto conflitto istituzionale. Poi mi faccia dire che condivido appieno quel passaggio in cui Renzi ieri l’altro in Senato ha osservato: abbiamo tagliato 300 parlamentari e adesso assoldiamo 300 consulenti? Una sintesi perfetta, per dire tre cose: il Recovery rappresenta una opportunità straordinaria che il Paese non può sprecare; a rispondere della capacità di costruzione e attuazione del Piano è il Governo, non tecnici individuati non si sa come che commissariano competenze e strutture pubbliche; nessun consulentificio perché quelle risorse devono invece essere utilizzate per rinnovare e adeguare la pubblica amministrazione al ruolo che deve avere nel rilancio del Paese. Strategico soprattutto nel Mezzogiorno. È questa l’indicazione che viene dall’Europa, non altre».

A prescindere dalla governance restano comunque tutti i limiti dell’impianto complessivo.
«La priorità infatti è l’impianto complessivo del Piano nazionale, quello su cui insieme ai miei uffici sto lavorando da agosto, e che ancora non conosco per intero perché ci è stato inviato solo due giorni fa, senza alcun confronto preliminare sul metodo di scelta delle differenti proposte. Non è un tecnicismo, ma una sostanza da condividere con tutta la maggioranza, gli altri livelli istituzionali, i corpi sociali. Non ci può essere una maggioranza della maggioranza con cui si fanno le scelte e altre forze politiche chiamate solo a ratificare. Italia Viva non siede nel Cdm per questo».

Quali sono secondo lei le priorità?
«Progetti di alta e altissima qualità, con garanzie certe sui tempi di realizzazione, sull’attuazione, sulle ricadute concrete di medio periodo, sulla capacità di spesa. Parto da un presupposto: la pandemia ha dimostrato la fortissima corrispondenza tra filiera agroalimentare e interesse nazionale. Se la filiera non avesse garantito costantemente gli approvvigionamenti, la tenuta sociale delle comunità avrebbe corso seri rischi. Ecco perché ho detto il PNRR deve avere un cuore agricolo. Perché sono convinta che questa filiera rappresenti una straordinaria occasione di futuro e di lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno come proprio voi avete ribadito a proposito di un Mezzogiorno agricolo e agroalimentare magari poco conosciuto però da record come dimostra proprio lo studio firmato da Fortis, Sartori e Corradini. Nel corso del lavoro tecnico in ambito Ciae abbiamo fatto una proposta: tra i criteri di selezione, insieme all’allineamento agli obiettivi europei, si scelgano quei progetti che possono privilegiare investimenti in mezzi e tecnologie italiane, gli unici in grado di incrementare il reddito e l’occupazione in modo duraturo, a vantaggio anche dei settori a monte e a valle di quello direttamente beneficiario dell’intervento».

Per rilanciare le aree interne forse è l’ultimo treno…
«Noi le consideriamo centrali, anche quelle a fallimento di mercato. Per invertire spopolamento, abbandono, e impoverimento, contrastare dissesto idrogeologico, investire su quella parte del Paese oggi più fragile e che può consentire nuove opportunità di lavoro soprattutto per le nuove generazioni e soprattutto nel mezzogiorno. Registriamo che nel Programma consegnatoci nella notte tra domenica e lunedì sono menzionate solo per gli edifici di culto. Non possiamo ad esempio continuare a lamentarci delle calamità naturali e dei conseguenti fenomeni di dissesto idrogeologico che regolarmente colpiscono vaste aree del nostro Paese se, al momento di programmare investimenti strategici come quelli del Recovery, non facciamo altro che spingere i cittadini verso le aree più densamente popolate, perché quelle rurali non sono dotate dei più elementari servizi, come ospedali, infrastrutture viarie, scuole e connettività all’altezza delle sfide del presente e future».

Lei dice prima il merito.
«Assolutamente. Non aver finora attivato il Mes per la sanità, e investire nove miliardi con il Recovery, rappresenta un problema o no? Se avessimo detto sì a 36 miliardi, noi avremmo liberato risorse per altre priorità, ad esempio le politiche attive per il lavoro. E oggi potremmo dare avvio a un Piano strategico per il nostro sistema sanitario, con uno strumento che ci pone una sola condizionalità: investimenti in sanità. Non è anche questo un punto di caduta prioritario per il Paese che invece viene costantemente derubricato?»

Ma sulla governance bisognerà discutere prima o poi?
«Assolutamente. Senza esautorare Ministeri, Regioni, amministrazioni, Parlamento. Se siamo i Ministri migliori del mondo, allora possiamo anche essere impegnati sull’attuazione del Piano che significa, meglio non dimenticarlo, responsabilità di firmare gli atti».

Sta pensando ad una struttura ad hoc, una versione moderna, modello Cassa del Mezzogiorno, l’idea rilanciata da questo giornale?
«Chiamiamola come volete, decidiamo quale sarà il contenitore e cosa ci sarà dentro, se sarà una unità di missione senza che ci sia un appesantimento e purché per semplificare non si tolga potere alle funzioni dello Stato. Si faccia quello che serve al Paese senza lasciare tutto nelle mani di sei burocrati amici. Facciamo del Recovery fund un’occasione come lo fu la Cassa del Mezzogiorno. Lo dico con parole semplici: individuare una struttura di coordinamento nazionale per la gestione del Piano è necessario; altrettanto lo è chiarire come ci si relazionerà con le Amministrazioni titolari di spesa, nazionali e regionali, che devono essere coinvolte a pieno titolo. Se possiamo dare poteri sostitutivi a dei perfetti sconosciuti, perché non possiamo darli alla pubblica amministrazione? Ci sono competenze che hanno gestito sempre fondi strutturali e saranno in grado di farlo anche adesso. La sfida è per noi, Governo. Siamo noi a dover essere capaci di motivare adeguatamente le risorse umane che abbiamo, chiamandole alla responsabilità di una stagione irripetibile. Esattamente come lo fu la prima Cassa per il Mezzogiorno con Gabriele Pescatore. Coraggio e visione. Dobbiamo essere noi il Gabriele Pescatore di questo tempo. E per la Pa deve essere un’occasione straordinaria».

Recuperare il divario Nord-Sud, dare un futuro ai giovani del Mezzogiorno. La posta in gioco è altissima…
«Troppo alta per non dover contare su strutture amministrative e procedure già rodate, che per l’occasione vanno potenziate. Il  rinnovamento della Pubblica amministrazione, in termini di personale, competenze e strutture è determinante: senza non possiamo pensare di affrontare una programmazione di questa portata. Abbiamo sempre parlato di pubblica amministrazione al servizio dello sviluppo. Ebbene, facciamo che lo sia. Piuttosto che commissariare il pubblico e mettere in piedi consulentifici, lavoriamo per consentire alle nostre amministrazioni di assicurare il ruolo che devono, innovandole e rinnovandole. Sarebbe uno dei risultati più importanti del Recovery, per un Paese convinto del suo ruolo globale, e che vuole giocare fino in fondo la carta dell’eccellenza. Per fare questo bisogna sburocratizzare e semplificare? Facciamolo! Il coraggio deve avere questo obiettivo. Visto che il Dl semplificazione avrebbe dovuto essere più coraggioso, lavoriamo per norme mirate in modo strutturale. Da quanto tempo tutti gli osservatori, Svimez compresa, spiegano quanto vale la semplificazione in termini di Pil, soprattutto nel Mezzogiorno? E allora, dico, io: se non ora quando? Se possiamo fare una norma in deroga, perché non possiamo semplificare, rafforzando competenze e saperi pubblici?».

Lei indubbiamente parla spesso di Mezzogiorno, gliene diamo atto. Dalla Ue arriva un mandato preciso: le nuove risorse vanno impiegate soprattutto nei territori meridionali. Se la sente di sottoscrivere questa frase?
«Ho parlato di sviluppo a trazione meridionale in tempi non sospetti: la centralità del Mezzogiorno nello sviluppo del Paese per me è indiscutibile, come anche il riequilibrio tra aree territoriali. Però non posso fare a meno di constatare che squilibri ormai si registrano dovunque, non solo tra Nord e Sud, anche in aree un tempo considerate sicure. Bisogna cambiare occhiali, liberarsi anche da retoriche che ci impediscono di guardare al Paese per quello che è, e per tutte le criticità che lo segnano e lo indeboliscono. Considero la filiera agroalimentare un paradigma perfetto anche per questo. Capace di poter fare la differenza, nel Mezzogiorno e nel Paese, di imporsi come riferimento per un nuovo modello di sviluppo, di parlare alle nuove generazioni e anche alle donne, le più straordinarie leve per l’innovazione su cui il nostro Paese possa contare. È capace di legare, fortemente, ecologia e tecnologia. Al nord come al Sud ma con ancora più forza al Sud. C’è chi si diletta a parlare di postazioni, noi preferiamo parlare di soluzioni».


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