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Un Sud ancora off limits per bambini e ragazzi. Ancora escluso dagli standard minimi di istruzione, salute, sicurezza sociale e benessere economico.

Messo a dura prova dalla pandemia, che nel Mezzogiorno ha finito per aggravare diseguaglianze preesistenti, denunciate a più riprese dall’ONU, oltre che dall’Unione Europea, dall’ISTAT e dai Ministeri interessati.

Il Rapporto 2020 sul monitoraggio della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, curato dal Gruppo CRC (Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza) – giunto al suo ventesimo anno di età e licenziato volutamente dopo le rilevazioni dell’effetto pandemia – conferma i numeri disastrosi del Sud e mette in luce il forte aggravio delle criticità registrate negli anni.

Su tutto, “l’assenza dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nella cultura politico-amministrativa, nell’agenda politica e la mancanza di un coordinamento efficace in tale ambito”.

Mancanza accentuata dalla riforma del Titolo V, parte II della Costituzione, che “attribuendo allo Stato potestà legislativa esclusiva in ambiti quali la determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, ha fatto sì che la loro mancata definizione accentuasse, nel tempo, le diseguaglianze già esistenti nell’offerta di determinati servizi essenziali, da Regione a Regione. Diseguaglianze che l’attribuzione alle autorità locali di potestà legislativa concorrente, in materie quali la tutela della salute e l’istruzione, non ha fatto che aumentare; rendendo di fatto discriminante per un bambino nascere e crescere in una Regione, piuttosto che in un’altra”.

SCUOLA E INTERNET

L’istruzione è stata il versante più colpito dall’emergenza sanitaria e dalle diseguaglianze della didattica a distanza, collegate a loro volta alla singola condizione familiare di bambini e ragazzi ed a quella sociale ed economica dei diversi territori di nascita e di appartenenza. Non a caso proprio la necessità di connessioni durante il lockdown da parte dell’intero nucleo familiare – didattica a distanza e telelavoro – ha evidenziato il digital divide preesistente, allarmante e fortemente sbilanciato a sfavore del Mezzogiorno.

I dati ISTAT in questo senso sono molto chiari: per quanto riguarda la dotazione tecnologica, se il 12.3% dei minori dai 6 ai 17 anni non possiede un tablet o un computer, al Nord questa percentuale si attesta al 7.5% e al Centro al 10.9%, mentre il Meridione registra il primato del 19% (470.000 minori).

Il divario si riscontra anche nella disponibilità di connessione a banda larga, indispensabile per l’accesso alla didattica a distanza: se il 77.9% dei minori nella fascia 6-17 anni vive in famiglie che dispongono di banda larga, questa percentuale si riduce al 73.1% al Sud e al 64.6% nelle Isole. In sostanza, secondo l’Istat, il 26% delle famiglie non dispone di accesso alla banda larga da casa e la differenza fra la Regioni con maggiore (Trentino) e minore (Molise) copertura è di ben 15 punti.

Anche le differenze socio-economiche contano molto: solo il 16% delle famiglie senza titolo di studio ha un accesso a banda larga fissa o mobile, contro il 95% delle famiglie di laureati. Deficit che, sotto pandemia, si sono sommati nel Mezzogiorno alla necessità di rinunciare più a lungo alle lezioni in presenza anche a causa di un trasporto pubblico locale inadeguato e maggiormente esposto ai contagi.

Dati, nel complesso, che se messi in relazione al reddito procapite ed alla spesa pubblica territoriale, penalizzano il Sud a 360 gradi: dall’accesso agli strumenti digitali, a una connessione Internet adeguata, fino al possesso delle competenze necessarie per utilizzare al meglio questi strumenti, sfruttandone quindi le potenzialità senza incorrere nei rischi di un loro uso scorretto o poco consapevole.

Già nel 2019, con riferimento alla condizione pre-pandemia, il Comitato ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza aveva espresso preoccupazione per le “disparità esistenti tra Regioni relativamente all’accesso ai servizi sanitari, allo standard di vita essenziale e all’istruzione per tutti i minorenni nel Paese”, segnalandole come “violazioni del principio di non discriminazione” e raccomandando “l’adozione di misure urgenti per affrontare le disparità esistenti tra le Regioni relativamente all’accesso ai servizi sanitari, allo standard di vita essenziale, a un alloggio adeguato, allo sviluppo sostenibile e all’accesso all’istruzione di tutti i minorenni in tutto il Paese”.

Insomma, l’impegno a garantire una crescita effettiva, in grado di annullare le due povertà strettamente connesse, quella economica e quella educativa. “Le opportunità che saranno offerte dai prossimi finanziamenti, a partire da Next Generation dell’Unione Europea – sottolinea il CRC – rappresentano un’occasione da non perdere se si vuole innovare e rendere più efficace e inclusivo il sistema di istruzione e rafforzare i settori dell’università e della ricerca, particolarmente penalizzati in termini di risorse e diritto allo studio”, evitando a causa del mancato completamento dell’anno scolastico e della fruizione a macchia di leopardo della didattica a distanza, di accrescere in modo esponenziale i divari territoriali nei livelli di apprendimento già molto forti in Italia.

SERVIZI ALL’INFANZIA

Premesso il riconoscimento legislativo italiano sia della natura educativa anche dei servizi per i più piccoli, che del carattere unitario del percorso educativo dalla nascita ai sei anni, l’Italia resta spaccata in due anche per la fascia 0-6 anni. Al sud, infatti, nonostante la scuola dell’infanzia sia ampiamente diffusa, un numero ancora molto alto di bambini ne fruisce solo a tempo parziale, in sezioni antimeridiane o per non più di 25 ore settimanali.

Questo significa che molti di loro non condividono né un pasto quotidiano completo, né una socialità continuativa, mancando oltretutto turni di compresenza di due docenti per attività di gioco e apprendimento. In sostanza, se ancora oggi l’offerta educativa per i bambini sotto i tre anni non ha raggiunto da noi l’obiettivo europeo del 33% (il cui raggiungimento era stato fissato entro il 2010), fermandosi a poco meno del 25%, a fare la differenza è la diffusione dei servizi nelle diverse aree del Paese: tutte le regioni del Centro-Nord sono sopra la media nazionale e diverse hanno superato l’obiettivo europeo del 33%, soprattutto nelle aree metropolitane; mentre tutte le regioni del Sud, esclusa la Sardegna, sono sotto la media nazionale.

In particolare, in Calabria, Sicilia e Campania, l’offerta educativa è disponibile al massimo per il 10% dei bambini sotto i tre anni. Non solo. I percorsi separati dei due segmenti dell’offerta educativa 0-3 e 3-6 anni trovano un drammatico punto di incontro nelle Regioni meridionali dove, di fronte alla carenza di servizi educativi, la crescente domanda delle famiglie trova sfogo nell’ingresso anticipato di molti bambini di due anni e qualche mese nella scuola dell’infanzia.

Mentre infatti l’ingresso anticipato alla scuola dell’infanzia interessa soltanto il 10% dei bambini di due anni nel Centro-Nord, l’incidenza è di 1 bambino su 4 nel Sud e 1 su 5 nelle Isole, dove peraltro il fenomeno sembra riflettersi anche nel maggior numero di ingressi anticipati nella scuola primaria, con possibili ripercussioni sul successivo percorso scolastico.

POVERTA’ E DISPERSIONE SCOLASTICA

In generale, le disuguaglianze sociali sono in aumento, sia in termini di povertà assoluta, che di povertà educativa, con evidenti e reciproci condizionamenti. I divari regionali, innanzitutto, appaiono molto ampi già riguardo la povertà minorile in generale, che una volta di più ha finito per aumentare a causa dell’emergenza sanitaria proprio nel Mezzogiorno.

Come emerge infatti da uno Studio regionale del Gruppo CRC, nel nostro Paese i minorenni che vivono in povertà sono il 56% in Sicilia, il 49% in Calabria, il 47% in Campania ed il 43% in Puglia. All’opposto si trovano Friuli ed Emilia Romagna (rispettivamente con il 14.9% e il 15.8%), poi Veneto (17.5%) e Umbria (20%).

Con una compromissione obbligata ed inevitabile rispetto alla frequenza scolastica, al coinvolgimento delle famiglie nella formazione culturale e sociale dei minori e persino alla realizzazione effettiva del diritto allo sport, al gioco e alla salute. Solo per fare un esempio, sono proprio i motivi economici – uniti alla mancanza di impianti sul territorio – a costituire un ostacolo alla pratica sportiva per molti bambini e ragazzi, in particolare nelle regioni del Sud Italia, dove sono ancora del tutto insufficienti le aree pubbliche attrezzate.

A tutto questo si aggiunge quanto registrato da Eurostat per il 2020: la quota di Early School Leavers (18-24enni che hanno conseguito un titolo di studio al massimo ISCED 2 – scuola media – e che non partecipano ad attività di educazione o formazione, sul totale della popolazione di pari età) in Italia è quasi dimezzata negli ultimi venti anni, passando dal 25.9% del 2001 al 13.5% del 2019. Il numero tuttavia è ancora lontano dalla media UE27 (10.2%) e non raggiunge l’obiettivo della strategia Europa 2020 della Commissione Europea, in cui viene richiesta la diminuzione del tasso di abbandono scolastico sotto la soglia del 10% entro il 2020.

E, soprattutto, il dato più preoccupante resta ancora una volta quello territoriale, se si considera che gli abbandoni precoci permangono su valori elevatissimi al Sud (16.7%) e nelle Isole (21.4%). Con l’ulteriore aggravante che separa il Centro e il Nord del Paese dal Sud e dalle Isole dove, secondo i Rapporti INVALSI più recenti, le percentuali di studenti con performance giudicate come non sufficienti sono prossime o superiori al 50%.

“Malgrado le numerose azioni intraprese negli anni da Governo, Ministero dell’Istruzione e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – si legge nel Rapporto CRC – i numeri di dispersione scolastica e formativa permangono su livelli allarmanti, richiamando alla necessità, non più differibile, di costruire e attuare un Piano nazionale di contrasto alla povertà educativa e alla dispersione scolastica e formativa che sappia guardare a una prospettiva di medio-lungo termine sullo sviluppo di un sistema di istruzione e formazione inclusivo e sulla riduzione dei divari tra Nord e Sud del Paese”.

MORTALITA’ INFANTILE

Il miglioramento nazionale è indubbio, dal momento che negli ultimi anni la mortalità infantile italiana è passata, secondo l’ISTAT, da 3.8 a 2.8 morti per mille nati vivi, con una progressiva riduzione del 50% negli ultimi 15 anni, soprattutto grazie al miglioramento della qualità dell’assistenza al parto e al bambino nel periodo perinatale. Il 75% dei decessi nel primo anno, infatti, continua a interessare bambini che hanno meno di un mese di vita.

Un fenomeno, tuttavia, che se vede maggiormente coinvolti i maschi (2.9) rispetto alle femmine (2.6), registra il triste primato tra i bambini del Sud rispetto a quelli del Nord (Sicilia 4.2 contro Lombardia 2.7). Da non sottovalutare il fatto che, a livello regionale, le differenze riguardanti la mortalità perinatale sono da attribuire alla diversa efficienza territoriale del Sistema Sanitario, a conferma del fatto che in alcune Regioni persistono carenze nell’assistenza neonatale e infantile.

Non bisogna dimenticare che la mortalità perinatale è un esempio di “morte evitabile” ed è costituita da due componenti: la natimortalità e la mortalità neonatale precoce. Ebbene, è vero che la natimortalità resta inferiore al 3%, ma anche in questo caso sono le le differenze regionali ad essere considerevoli: il dato infatti è inferiore al 2% in Valle d’Aosta, Provincia Autonoma di Bolzano, Lazio e Molise; mentre è superiore al 3.5% in Puglia e nelle Marche ed è oltre il 4% in Basilicata.

Ancora, i risultati del progetto SPItOSS (Italian Perinatal Surveillance System), che si è concluso dopo tre anni di lavoro e che ha coinvolto tre Regioni italiane, rilevano che ogni 1.000 bambini nati si registrano 4 morti in Sicilia, 3.5 in Lombardia e 2.9 in Toscana.

ABUSI E MALTRATTAMENTI

Capitolo a cui mancano numeri certi e aggiornati. Non a caso, il Comitato ONU sollecita da anni l’Italia a dotarsi di un sistema nazionale di raccolta dati sulla violenza verso i minori, a partire da un’indagine sul maltrattamento condotta nel 2015 su 231 Comuni a cura di AGIA-CISMAI-Terre des Hommes: rispetto ai minori in carico ai Servizi Sociali, dalla ricerca emergeva che sono oltre 91.000 i minori maltrattati in Italia.

In altre parole, circa 1 bambino su 5 – di quelli in stato di bisogno seguiti dai Servizi Sociali – è vittima di maltrattamento. 212 per mille sono femmine e 193 per mille sono maschi, mentre i minorenni stranieri sono il 20 per mille, a fronte dell’8 per mille dei minorenni italiani.
E se il 47.1% dei minori è vittima di grave trascuratezza, il 19% di violenza assistita, il 13.7% di maltrattamento psicologico, l’8.4% di patologia delle cure, il 6.9% di maltrattamento fisico e il 4.2% di abuso sessuale, il recente Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia (a cura di Cesvi, CISMAI, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, ISTAT, MIUR, Istituto degli Innocenti, Consiglio nazionale Ordine degli Assistenti sociali) che valuta come il contesto socio-economico e i servizi presenti nelle varie regioni possano incidere, positivamente o negativamente, sul benessere dei bambini/e o, viceversa, sulla loro vulnerabilità a fenomeni di maltrattamento, mostra ancora una volta un Paese a due velocità, con un’elevata criticità dei territori del Sud, che rispetto alla media nazionale registrano peggioramenti sia tra i fattori di rischio che tra i servizi. In sintesi, la Sardegna è l’unica regione a registrare, rispetto al 2019, un abbassamento dei fattori di rischio e un miglioramento dei servizi.

E mentre le otto Regioni del Nord Italia sono tutte al di sopra della media nazionale, nel Mezzogiorno si riscontra un’elevata criticità: le ultime quattro posizioni dell’Indice sono occupate da Campania (20°), Calabria (19°), Sicilia (18°) e Puglia (17°). La Regione con la maggiore capacità nel fronteggiare il problema del maltrattamento infantile, sia in termini di contesto ambientale che di sistema dei servizi, si conferma invece, come negli anni precedenti, l’Emilia Romagna, seguita da Trentino Alto Adige (2°), Friuli Venezia Giulia e Veneto che si scambiano il terzo e il quarto posto, e Toscana, confermata in quinta posizione.

Durante l’emergenza sanitaria le misure di contenimento e di limitazione degli spostamenti e dei contatti hanno esposto i minorenni a un maggiore rischio di violenza soprattutto in quelle regioni meno fornite di servizi territoriali, il cui rallentamento ha comunque inciso in generale sulla capacità di rispondere alle richieste. Il divario Nord-Sud ha finito anche qui per aggravarsi proprio per la capacità di resilienza offerta dalle maggiori disponibilità economiche dei territori del Nord.


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