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Il presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi

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Scegliendo il “rischio ragionevole” sulle riaperture, Mario Draghi ha fatto una scelta politica di grande impatto. Non è stata una “concessione” a Salvini bensì la decisione di venire incontro al mood di un Paese armai allo stremo; sapendo inoltre che i soli ristori se da un lato sono obbligatori comportano un doppio handicap: aumentano in modo consistente il debito pubblico (che poi sia buono o cattivo è una interessante discussione) e non sono sufficienti a salvaguardare le attività imprenditoriali. Solo una ripresa effettiva del lavoro lo è.

Si può essere d’accordo o meno su una simile impostazione, e si può legittimamente criticare una scelta sul fronte epidemiologico che invece di arginarli può allargare i contagi. Tuttavia affiancata a questa c’è un’altra linea di azione governativa dove il rischio pure esiste ma ha una caratteristica opposta: che cioè non può essere ragionato. Si tratta di un terreno dove Draghi non può sbagliare perché non gli verranno concesse attenuanti di sorta. Ed è la predisposizione entro una decina di giorni del Pnrr nell’ambito del Recovery plan da presentare in Parlamento prima e spedire a Bruxelles poi.

Il presidente del Consiglio ha già mostrato di avere le idee chiare in proposito e ha disegnato il perimetro entro il quale il piano deve muoversi: quello per cui alzare l’asticella del debito è funzionale a far ripartire il ciclo economico e finalmente riavviare la crescita, unico antidoto vero al default derivante dall’insostenibilità dei circa 2600 miliardi di euro raggiunti (circa 43 mila a testa per ogni italiano, neonati compresi).

La consapevolezza di palazzo Chigi, in realtà, va anche oltre. Sa cioè che il difficile non sarà tanto ottenere le risorse dalla Ue (e l’Italia ne avrà più di tutti gli altri Paesi) quanto dimostrare di saperle spendere. Ossia garantire che il massiccio afflusso di denaro correrà per i canali giusti, diventerà investimento concreto e arriverà a destinazione agendo come volano per lo sviluppo e l’aumento dell’occupazione. Puntando a colmare per quanto possibile il divario Nord-Sud, vera palla al piede del decollo italiano.

Come un missile a più stadi, per il Recovery plan ce n’è anche un terzo da considerare, ed è forse il più complicato. Affinché le risorse diventino investimenti veri e alimentino i progetti scelti dal governo, è fondamentale che le procedure di allocazione siano snellite. Ci sono molti modi di affrontare questo tema che è decisivo. Il più netto è prendere di petto il Codice degli appalti e rivederlo in profondità. Opzione abrasiva che metterebbe a soqquadro la maggioranza di larghe intese, scatenerebbe le critiche della magistratura, farebbe entrare il governo in un buco nero di contrapposizioni dal quale presumibilmente non uscirebbe indenne avviandosi allo sfaldamento. Meglio lasciar perdere.

Tuttavia il problema esiste. Al punto che un esponente non certo di secondo piano del Pd, il sottosegretario agli affari europei Enzo Amendola, afferma esplicitamente che affinché il Recovery funzioni “sta a noi (all’Italia, ndr) avere regole e procedure che disegnino una corsia preferenziale per rendere esecutivi i progetti”.

La differenza politica tra revisione del codice degli appalti e creazione di una corsia preferenziale per i medesimi è palese. Ma altrettanto palese è che, fermo restando il primo, senza la seconda il rischio di Draghi diventa azzardo col pericolo di trasformarsi in tracollo.

Ci possono essere anche altri percorsi e altre direttrici giuridiche. Il punto è che una iniziativa è obbligatoria altrimenti il castello dei fondi europei fa la fine di quelli di sabbia costruiti sulle spiagge dai bambini con l’aiuto dei papà.

Se il Pd fa da mosca cocchiera è presumibile che altri pezzi della maggioranza lo seguano. L’ex ministro ed ex capogruppo Graziano Delrio ha in mano la questione. E si sta già muovendo con discrezione. Ovviamente il Pd sa di dover superare il probabile niet dei Cinquestelle. Ed è forse questo il fossato più ampio da colmare tra la voglia di allearsi con i Pentastellati (a proposito: che ne pensa Conte?) e il grido “quello di Draghi è il nostro governo” lanciato da Enrico Letta al momento dell’investitura a segretario dei Democrat.

Quanto il tema sia urgente e assai avvertito in ambito europeo lo dimostrano le parole della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, che il 28 novembre scorso si rivolse all’Italia dicendo che “il  Next generation Eu porterà un’ondata senza precedenti di investimenti pubblici per l’economia italiana, ma questo solo se l’Italia entra in gioco con volontà nell’apportare riforme e adottando un approccio strategico negli investimenti”. A cosa si riferisse, la presidente lo disse esplicitamente: “Penso a riforme volte ad accelerare il sistema giudiziario e la pubblica amministrazione, aspetto essenziale per attrarre investimenti e infondere fiducia al settore pubblico”. Giustizia più veloce, burocrazia meno asfissiante, pubblico impiego all’altezza della sfida. Cose che Mario Draghi conosce benissimo, che dovrà mettere nero su bianco il 27 quando si presenterà alle Camere e che soprattutto dovrà implementare per evitare che il rischio ragionevole diventi cocente sconfitta. Per lui e per l’Italia.


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