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Mario Draghi

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SIAMO ormai alla seconda estate rigata dal virus. O è forse la terza? Torna alla mente un’altra estate lontana, quella del 1918, con la famosa “spagnola” (la più letale pandemia dei tempi moderni, con decine di milioni di morti, e mezzo miliardo di infettati nel mondo): i contagiati diminuirono nell’estate del 1918, e, a inizio agosto, c’era una palpabile speranza che il virus avesse terminato la sua corsa. Ma, col senno di poi, era “la calma prima della tempesta”. In Europa, una nuova versione del virus era emersa, più virulenta della prima… Qualcosa del genere è successo nell’estate del 2020, e, dopo alterne vicende, a 12 mesi di distanza stiamo ancora combattendo con le nuove varianti del coronavirus. Ma, in questa “terza” estate, c’è una grande differenza. È vero, la variante Delta non è domata, e, nelle vertiginose mutazioni del virus, si profila una Delta+ e una Lambda.

La grande differenza sta nei vaccini. Nell’estate dell’anno scorso i vaccini erano solo una speranza: bisognò aspettare la fine dell’anno per vedere l’autorizzazione al Pfizer-BioNtech. Ma da allora la speranza è diventata una multiforme realtà: altri vaccini sono scesi nell’arena e negli ultimi 8 mesi 4,5 miliardi di dosi sono state somministrate nel mondo, e una percentuale crescente della popolazione è totalmente vaccinata (in Italia, quasi due terzi degli abitanti sopra i 12 anni).

L’altra grande differenza sta nel fatto che l’estate scorsa guardava sconsolata a un’economia a picco: il Pil scendeva – ora lo sappiamo con più precisione – di quasi il 9%: la più grave caduta dagli anni Trenta. Oggi, invece, l’attività economica è in forte ripresa: non solo l’indice della produzione industriale (che, sulla base 2015=100, è più alto rispetto a Francia e Germania) ma anche i servizi stanno riprendendo vigore, e le previsioni del Pil di quest’anno – circa il 5% in rialzo – saranno probabilmente superate.

Non c’è da stupirsi: dopo il brutto viene il bello, avrebbe detto Bertoldo, e dopo un crollo di quella fatta un rimbalzo è fisiologico.

La vera domanda è un’altra: si tratta di una crescita duratura? O, dopo questo primo spasmo di crescita, come quello della rana di Galvani, quei pesi e quelle magagne che avevano costretto l’Italia nella camicia di forza di una ventennale stagnazione riprenderanno il sopravvento? C’è ragione di essere ottimisti, perché, oltre ai vaccini, ci sono i soldi del PNRR, c’è la ferma determinazione di spenderli bene, e c’è un Governo che sa quello che fa. Una congiunzione astrale di buone notizie congiunturali (il rimbalzo), mediche (i vaccini), e strutturali (i fondi Ue e Mario Draghi), spinge verso una nuova stagione di crescita. Ma ogni rosa ha le sue spine, e per alcuni la spina sta nel debito pubblico che, già elevato prima della pandemia, è ora balzato verso vette mai toccate nel dopoguerra. Col che si levano voci ammonitrici sui pericoli di un così alto debito, per non parlare del famoso spread che si mantiene sopra quota 100 ed è pronto a un pericoloso balzo in avanti se i mercati perdessero fiducia nell’Italia. Ora, è certamente vero che bisogna stare attenti a non fare riforme in deficit (oltre quello che ci possiamo permettere con le risorse del PNRR). Ma, allo stesso tempo, non è opportuno flagellarci con l’onta di un debito pari al pluricitato 160% del Pil.

Una percentuale, questa, cui non bisogna guardare con le lenti del passato. Da questo debito bisogna togliere l’enorme quantità di titoli detenuti dalla Banca centrale, che le resteranno in pancia fino al giorno del Giudizio (a parte le miserrime tecnicalità delle scadenze e dei rinnovi), e che non fanno parte del giudizio del mercato.

È singolare che, ottant’anni e passa dopo il famoso apologo di Keynes (per sostenere l’economia, sotterrate bottiglie piene di soldi e dite alla gente di scavare) dobbiamo ancora sentir bruciare sulla pelle il famoso Schuld=debito=colpa. Anche allo spread bisogna guardare con lenti diverse dal solito. Fra pandemia e meritorio pronto soccorso delle Banche centrali molte cose sono cambiate. Lo spread parte da un tasso Bund pari al -0,47% (e ancor più negativo, al -4%!, tenendo conto dell’inflazione poco tedesca a luglio del 3,9%). Invece di guardare allo spread, segnato da questa anomala base di partenza, guardiamo ai livelli assoluti: sui BTp a 10 anni paghiamo solo lo 0,55% di interesse. Dovremmo stropicciarci gli occhi per credere a un tasso così basso nella tormentata storia finanziaria dell’Italia. In America i rendimenti dei T-Bond a 10 anni sono all’1,28%, molto più alti di quelli italiani.

Qualcuno dice: ma la Grecia ha rendimenti sui titoli pubblici a 10 anni ancora più bassi (0,52%) dei nostri. Buon per loro: prima della crisi, che ha fatto esplodere i deficit dappertutto, la Grecia, che negli ultimi anni era cresciuta più dell’Italia, aveva raggiunto il surplus nel bilancio publico. Ma quello che importa, sia per la Grecia (che ha ancora un debito pubblico ben superiore al 200% del Pil) che per l’Italia è che il servizio del debito è leggero. I tassi non resteranno così bassi per sempre, ma intanto ci danno lo spazio necessario per concentrare i nostri sforzi sull’unica cosa che conta.

Il nemico pubblico numero 1 non è il debito, è la scarsa crescita. Preoccupiamoci di quella. Non è il debito a intralciare la crescita, sarà questa a curare il debito.


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