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L’Italia è un paese che invecchia male, che non fa figli e che si spopola rapidamente. E’ la fotografia dell’Istat e, a differenza del passato, il campanello di allarme suona soprattutto per il Sud dove la fecondità è ormai ai minimi storici mentre l’emigrazione verso il Nord prosegue senza sosta.

 Inevitabile, verrebbe da dire, considerando che nascere nel Mezzogiorno vuol dire partire con diversi svantaggi, primo fra tutti una spesa per i servizi sociali vicina allo zero. I dati Istat non possono sorprendere perché il welfare in Italia è inferiore di gran lunga alla media europea ma al Sud è quasi pari a zero. Se a Bolzano ci sono a disposizione circa 583 euro per ogni cittadino, a Vibo Valentia non si va oltre i sei euro. Un abisso. E’ quanto emerge dal rapporto “I servizi sociali territoriali: una analisi per territorio provinciale”, redatto dall’Osservatorio nazionale sui Servizi sociali territoriali del Cnel realizzato in collaborazione con l’Istat. Secondo il monitoraggio, nel 2019, anno pre Covid, la spesa per i servizi sociali in Italia è stata pari allo 0,42% del Pil arrivando a 0,7% con le compartecipazioni dei cittadini e del servizio sanitario nazionale.

 Il dato è soltanto un terzo di quanto impegnano i bilanci di altri Paesi europei, 2,1-2,2% di media. Grandi sono le differenze territoriali, con un divario Nord-Sud. La peggiore è la Calabria con tutte le province nelle ultime cinque posizioni e una spesa pro-capite che non supera i 25 euro, mediamente. Nel 2019 la spesa sociale è passata da 7,472 miliardi di euro a 7,508, appena +35,9 milioni. Una goccia nel mare rispetto ad altri paesi europei.

 Quindi, non c’è da meravigliarsi troppo se, come evidenzia oggi l’Istat, la natalità in Italia è al minimo storico, e la mortalità resta ancora elevata: meno di 7 neonati e più di 12 decessi per 1.000 abitanti. Nel 2022 i nati sono scesi, per la prima volta dall’Unità d’Italia, sotto la soglia delle 400mila unità, attestandosi a 393mila. Dal 2008, ultimo anno in cui si registrò un aumento delle nascite, il calo è di circa 184mila nati, di cui circa 27mila concentrate dal 2019 in avanti.

 La regione con la fecondità più alta, con un valore pari a 1,51 figli per donna, non a caso, è il Trentino-Alto Adige dove stipendi e welfare sono tra i più elevati. Regioni con fecondità decisamente contenuta sono il Molise e la Basilicata, con un valore di 1,09 figli per donna, ma su tutte spicca la Sardegna che, con un valore pari a 0,95, è per il terzo anno consecutivo l’unica regione con una fecondità al di sotto dell’unità. Nel Mezzogiorno, che presenta un valore del tasso di fecondità totale di 1,26, solo Sicilia, Campania e Calabria hanno una fecondità al di sopra della media nazionale (rispettivamente 1,35, 1,33 e 1,28 figli per donna), è invece al di sotto nelle altre cinque regioni. Viceversa, nel Nord, che registra la stessa fecondità del Mezzogiorno, solo Piemonte (1,22) e Liguria (1,20) presentano una fecondità al di sotto della media nazionale, nelle altre sei è invece maggiore di 1,24.

 Nel Mezzogiorno si trovano le regioni con la più elevata età media al parto, Basilicata (33,2), Sardegna e Molise (32,9). Scendendo a livello provinciale, il primato della fecondità più elevata spetta alla provincia di Bolzano (1,65), seguita da Gorizia (1,45). Il primato della fecondità più bassa spetta alle province sarde, con ben tre province su cinque, Cagliari, Sud Sardegna, Oristano, al di sotto di un figlio per donna (0,93 la prima, 0,90 le ultime due).

Alla luce dei primi risultati provvisori, la popolazione residente in Italia al primo gennaio 2023 è di 58 milioni e 851mila unità, 179mila in meno sull’anno precedente, per una riduzione pari al 3 per mille. Prosegue, dunque, la tendenza alla diminuzione della popolazione. Appurato che nel 2022 la popolazione residente presenta una decrescita simile a quella del 2019 (-2,9‰), sul piano territoriale si evidenzia un calo demografico importante che interessa il Mezzogiorno (-6,3‰). Il Centro (-2,6‰) e soprattutto il Nord (-0,9‰), che pur presentano un saldo demografico negativo, hanno valori migliori della media nazionale.

Sul piano regionale, la popolazione risulta in aumento solo in Trentino-Alto Adige (+1,6‰), in Lombardia (+0,8‰) e in Emilia-Romagna (+0,4‰). Le regioni, invece, in cui si è persa più popolazione sono la Basilicata, il Molise, la Sardegna e la Calabria, tutte con tassi di decrescita più bassi del -7‰. Per quanto riguarda la speranza di vita alla nascita nel 2022 è stimata in 80,5 anni per gli uomini e in 84,8 anni per le donne, solo per i primi si evidenzia, rispetto al 2021, un recupero quantificabile in circa 2 mesi e mezzo di vita in più. Per le donne, invece, il valore della speranza di vita alla nascita rimane invariato rispetto all’anno precedente. L’impatto della crisi Covid sul sistema sanitario, e la conseguente difficoltà nella programmazione di visite e controlli medici, potrebbero esser state particolarmente forti per le donne, più inclini degli uomini a fare prevenzione.

Nel Nord la speranza di vita alla nascita è di 80,9 anni per gli uomini e di 85,2 per le donne; i primi recuperano circa un mese rispetto all’anno precedente al contrario delle donne che invece lo perdono. Il Trentino-Alto Adige è ancora la regione con la speranza di vita più alta sia tra gli uomini sia tra le donne, il Friuli-Venezia Giulia è invece la regione che ha registrato il maggior guadagno rispetto all’anno precedente, circa sei mesi per entrambi i sessi. Il Centro è l’unica area per cui si registrano incrementi di sopravvivenza in tutte le regioni, anche se lievi, rispetto al 2021: per gli uomini l’incremento è dello 0,2, mentre per le donne dello 0,1. La speranza di vita più alta tra gli uomini si annota in Toscana (81,3), per le donne nelle Marche (85,4).

Anche il Mezzogiorno nel complesso fa registrare gli stessi incrementi del Centro, ma al suo interno ha una situazione più eterogenea. La Campania, con valori della speranza di vita di 78,8 anni per gli uomini e di 83,1 per le donne, resta la regione dove si vive meno a lungo.

 Capitolo movimenti migratori: nel 2022 si sono verificati 1 milione 484mila trasferimenti interni, il 4% in più rispetto all’anno precedente e ben il 10% in più rispetto al 2020, tornando così ai livelli del 2019. E anche nel 2022 si registrano movimenti migratori interni sfavorevoli al Mezzogiorno: sono 420mila le persone che hanno lasciato nel corso dell’anno un comune meridionale per trasferirsi in un altro comune italiano, mentre sono 352mila quelli che hanno eletto un comune del Mezzogiorno quale luogo di dimora abituale. Questo fenomeno riguarda tutte le regioni del Mezzogiorno, in particolare la Basilicata e la Calabria, per le quali il saldo negativo è del 5,5‰, davanti al Molise (-4,7‰) e alla Campania (-4,3‰).


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