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Il minore livello dei prezzi al Sud dovrebbe essere attraente per gli investitori ma servono infrastrutture fisiche e telematiche al capitale umano, al tessuto sociale

Benzina, alimentari… I prezzi dei beni di prima necessità occupano, purtroppo, le prime pagine dei giornali. Ma c’è un’altra dimensione dei prezzi che meriterebbe di essere sviscerata, ed è la differenza nel livello delle quotazioni da regione a regione. Questi indici “spaziali” – come li chiama l’Istat – non sono, sfortunatamente, disponibili così rapidamente come quelli a livello nazionale. Ma, sia pure con ritardo, costituiscono un utile tassello per ricostruire tutti gli aspetti delle diseguaglianze territoriali.

L’Istat, che anche negli anni passati ha fatto studi in proposito, pochi giorni fa ha rilasciato dei nuovi indici – riferiti all’anno 2021 – con una metodologia che attinge ai protocolli internazionali per determinare le ‘parità di potere d’acquisto’ (PPA).

Queste ‘parità’ sono essenziali per confrontare i Pil dei diversi Paesi. Di solito questi vengono comparati usando i cambi di mercato per mettere a confronto, diciamo, il Pil degli Stati Uniti con quello della Cina. Mettiamo che, usando questo metodo, e facendo 100 il Pil Usa, quello cinese sia pari a 72 (come in effetti è, secondo il Fondo monetario, al 2023). Questo vuol dire che l’economia americana è più grande di quella cinese?

Non necessariamente. Supponiamo che, per semplificare, il Pil, invece di essere composto da tanti prodotti, consista solamente di burro, e la Cina produce burro (in tonnellate, o qualsiasi altra misura di volume) per 123, mentre gli Usa producono burro per 100. A questo punto, l’economia cinese è più grande di quella americana del 23% (sempre secondo le stime del Fondo, basate sul Pil in PPA). Come si spiega questa inversione della classifica?

Si spiega semplicemente col prezzo del burro. Se il burro costa meno in Cina rispetto agli Stati Uniti, i cambi di mercato non ci dicono la stazza reale dell’economia. Quello che conta, nel confronto internazionale, è la quantità di beni prodotti in un Paese, dopo aver tenuto conto dei diversi livelli dei prezzi.
L’esercizio dell’Istat è utile non tanto per determinare la stazza economica della Lombardia nei confronti, mettiamo, dell’Abruzzo, ma piuttosto per determinare le differenze nel potere di acquisto di uno stesso reddito nelle diverse regioni. Passate stime dell’Istat riguardavano tutti i beni e servizi. Mentre questa volta, nei ‘lavori in corso’ dell’affinamento delle metodologie, ci si è limitati ad alcune categorie essenziali di beni. In particolare, gli alimentari, le bevande e abbigliamento/calzature.

Il grafico mostra i risultati di questo esercizio. E, come potevamo aspettarci (e come risultato in passato da altre stime), il livello dei prezzi è nettamente più basso al Sud rispetto al Nord: c’è una differenza del 16% fra la regione più cara (Alto Adige) e quella più economica (Campania): guardando alla tre categorie, la differenza è più alta per gli alimentari (20%) e per l’abbigliamento/calzature (26%) e più bassa per le bevande (meno del 10%).

In passato questo tipo di confronti fra livelli assoluti dei prezzi nelle diverse regioni andava rinfocolando il dibattito sul possibile ritorno delle ‘gabbie salariali’. Già la parola ‘gabbia’ dà un connotato negativo: sono esistite in Italia dal 1946 al 1972, e i salari erano diversi, nelle diverse zone del Paese, appunto per tener conto del diverso livello del costo della vita. Furono però considerate discriminatorie e poco eque, e, in omaggio a una malintesa eguaglianza, ne fu decisa l’abolizione nel 1969 (graduale, fino al 1972).

In altri Paesi, come in America, non c’è bisogno di gabbie: la contrattazione salariale è molto decentrata, la maggioranza dei contratti non sono nazionali e non valgono erga omnes, e i salari si adeguano alle condizioni locali. Da noi, le cose sono diverse. Un insegnante nella scuola pubblica ha lo stesso stipendio a Trento e a Napoli. I concorsi sono normalmente su base regionale, e quindi se una ragazza vince il concorso a Napoli non può finire a Trento. Ma ciò non toglie che lo stipendio di un insegnante a Trento ha meno potere d’acquisto di quello di Napoli. Questo è un male o un bene?

Il minore livello dei prezzi al Sud dovrebbe essere attraente per gli investitori. Ma perché questa attrattiva passi dalla potenza all’atto, bisogna che altre componenti della ‘attrattività’ si realizzino: dalle infrastrutture fisiche e telematiche al capitale umano, al tessuto sociale… I passi avanti in queste direzioni ci sono, e bisogna operare perché continuino, fino a realizzare quel ‘mondo capovolto’ che vede il Mezzogiorno diventare l’altro polo della crescita italiana ed europea.


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