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Mara Carfagna, ministro per il Sud

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C’E’ UN buon contributo anche del Mezzogiorno, maggiore di quello del Nord, alla crescita dei posti di lavoro nel Paese che nel secondo trimestre 2022 arriva a contarne 23 milioni 150mila, con un aumento di 175mila unità tra aprile e giugno (+0,8%) rispetto ai primi tre mesi dell’anno, che diventano 677mila (+3%) nel confronto con il 2021. Il Sud ci ha messo del suo. Nel secondo trimestre il tasso di occupazione ha raggiunto nel Paese il 60,5%, guadagnando lo 0,5% sul periodo precedente. L’aumento è più marcato tra gli uomini che tra le donne, rispettivamente di 0,6 punti e 0,4; tra i 15-34enni che segnano +0,9 punti, rispetto ai +0,3 punti dei 35-49enni e ai +0,4 punti dei 50-64enni; e tra i residenti del Mezzogiorno che “avanzano” di 0,8 punti rispetto ai +0,5 punti nel Nord e alla stabilità del Centro.

Anche su base annuale il Mezzogiorno dà prova di un dinamismo maggiore delle altre aree – qualche merito spetta anche alla decontribuzione Sud -, come mostra la crescita più accentuata del tasso di occupazione che è pari al 2,6%, rispetto al +1,8% del Nord e al +2,3% del Centro. Nel complesso, nel trimestre, segnala l’Istat, l’input di lavoro è aumentato dell’1,3% rispetto ai primi tre mesi dell’anno, e del 5,1% su base annuale, una dinamica in linea con quella del Pil cresciuto dall’1,1% su base congiunturale, del 4,7% in termini tendenziali. Tra aprile e giugno, in particolare, il “contingente” dei dipendenti a termine segna 48mila unità in più (+1,6%), +126mila quello dei lavoratori impiegati a tempo indeterminato (+0,8%), resta stabile quello degli indipendenti.

Si assottiglia quello dei disoccupati che ne segna 97mila in meno (-4,6%), -121mila (-0,9%) quello degli inattivi classe 15-64 anni. E il tasso di disoccupazione scende quindi all’8,1% (-0,4 punti in tre mesi), al 34,4% (-0,3 punti) quello di inattività. Su base annuale l’aumento dell’occupazione coinvolge i dipendenti – a tempo indeterminato (+396 mila, +2,7%) e a termine (+245 mila, +8,3%) – e, con minore intensità, anche gli indipendenti (+36 mila, +0,7%); in crescita gli occupati a tempo pieno e a tempo parziale (+3,2% e +2,1%, rispettivamente). I disoccupati calano a quota 2,6 milioni (382mila in meno in anno, -16%), con il tasso di disoccupazione che perde 1,6 punti e si attesta all’8%, e diminuisce in particolare modo tra i giovani e i residenti meridionali dove l’indicatore perde 2,8 punti, rispetto rispettivamente all’1 e al 1,4 delle ripartizioni Nord e Centro.

“I dati Istat attestano che per il quinto trimestre consecutivo, malgrado un contesto economico e politico internazionale tutt’altro che favorevole, prosegue la crescita del numero degli occupati e i risultati migliori in termini di recupero occupazionale riguardano proprio i soggetti e le aree più fragili, cioè i giovani e il Mezzogiorno”, afferma la ministra per il Sud, Mara Carfagna, per la quale i dati sono “una straordinaria conferma delle scelte del governo e una durissima smentita delle critiche dei partiti che hanno sfiduciato l’esecutivo, proprio mentre stava dimostrando che il Sud non è la causa persa d’Italia, da tenere a galla solo con i sussidi e i giovani possono ambire a qualcosa di meglio del reddito di cittadinanza”.

Dello stesso tenore la lettura del ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, che allunga la lista delle “buone notizie per la nostra economia” allineando i risultati sull’occupazione a quelli del Pil e della produzione industriale in ripresa dopo la flessione osservata nei due mesi precedenti: “Crescita del valore aggiunto dell’industria e dei servizi, ripresa dell’occupazione sia in termini di ore lavorate che di unità di lavoro, crescita congiunturale del Pil che non vedevamo da decenni, tensioni sul mercato dell’energia che sembrano (il condizionale è d’obbligo) affievolirsi portando il prezzo del gas sotto la soglia psicologica di 200 euro/megawattora e fluttuare attorno a 185 euro/megawattora e, ancor più importante, uno scenario geopolitico che vede un cambio di fase della guerra in Ucraina. Tutto questo fa ben sperare per i prossimi mesi”, afferma. “Fino al secondo trimestre, dunque, tutto bene. L’incertezza – avverte – riguarda gli ultimi due trimestri e il 2023. La variabile decisiva sarà l’andamento del conflitto, che ad oggi sembra a un punto di svolta. Inutile, in ogni caso, dirci già in recessione, anche perché non è vero. Un po’ di sano orgoglio, almeno sin qui, non nuoce”.

Se i dati dell’occupazione meridionale appaiono una volta tanto confortanti, sempre i numeri mostrano quanta strada ci sia ancora da fare in quella che è la principale porta d’accesso al mercato del lavoro, afflitto sempre più dalla carenza di competenze che si riflette nel mismatch tra la domanda e l’offerta. L’abbandono scolastico è una piaga ancora profonda per le regioni meridionali. E profondo è il divario su questo piano con le altre aree territoriali. Se l’Italia ha faticosamente compiuto passi avanti, migliorando la sua performance, resta ancora indietro nel confronto europeo. Nel 2021 si colloca, rileva un report di Openpolis, infatti al terzo posto tra i Paesi Ue con più abbandoni, con una media che si attesta al 12,7%, dopo Romania (15,3%) e Spagna (13,3%). L’Unione europea, con una risoluzione del febbraio 2021, ha ulteriormente ridotto dal 10 al 9% l’obiettivo continentale al 2030. Raggiungerlo, si sottolinea nell’analisi, significa per il nostro Paese prima di tutto ridurre gli ampi divari territoriali che ancora resistono su questo aspetto. In Sicilia, ad esempio, oltre un giovane su cinque ha lasciato la scuola prima del tempo.

L’isola è prima nella classifica degli abbandoni riferiti al 2021, seguita da altre due grandi regioni meridionali, la Puglia e la Campania. La prima è poco lontana dal doppiare la media Paese: la percentuale di abbandoni si attesta infatti al 21,20, le altre due segnano rispettivamente il 17,60% e il 16,40%. La strada è ancora lunga, quindi. Sono “in anticipo” sul target europeo del 9% invece Basilicata (8,7%), Friuli-Venezia Giulia (8,6%), Abruzzo (8%), Marche (7,9%) e Molise (7,6%). Altre tre regioni sono comunque sotto quota 10%, si tratta di Emilia-Romagna (9,9%), Veneto (9,3%) e Lazio (9,2%).


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