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il Ministro Marta Cartabia

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Beato quel Paese che non ha bisogno di giustizia “giusta”: magari perché la mantiene salda nella tautologia della parola. Un Paese che non abbia bisogno neppure di “giustizialisti”, in quanto ciascuno è conscio di limiti e ruoli, e li rispetta. Da trent’anni e oltre l’Italia non è quel Paese, lo sappiamo. Anzi: non c’è nulla più del tema della giustizia che misuri temperatura e coesione di gruppi, alleanze, maggioranze, ergo tenute governative (le cadute da Palazzo per mal di Procura non si contano).

Non si può allora certo biasimare il premier Mario Draghi se, prima che la calura facesse diventare esplosivo il nodo, ha voluto imprimere maschia accelerazione alla riforma del processo penale, giacente da mesi alla Camera (come quella del processo civile al Senato) per non suscitare suscettibilità e risentimenti dei “guardiani della rivoluzione”.

Dove per “rivoluzione” si dovrebbe intendere quella del giustizialismo grillino e per “guardiano” l’autore delle contestatissime norme sulla prescrizione, Alfonso Bonafede (che non a caso guida, in commissione Giustizia a Montecitorio, gli undici apostoli grillini – narrati come sol uomo al seguito e difesa dell’ex guardasigilli). Il lavoro preparatorio svolto in questi mesi dalla ministra Cartabia ha trovato perciò negli ultimi giorni un serrato calendario di incontri con gli esperti di tutte le forze politiche di maggioranza e ieri l’approdo in Consiglio dei ministri per un avallo “ufficiale” degli emendamenti richiesti dal governo, prima dell’arrivo in aula il prossimo 23 luglio (così da evitare anche tiri mancini nel voto segreto: “Bisogna fare un patto di maggioranza per evitare spaccature o che ci sia un incidente parlamentare”, spiegava ieri uno dei grillini più governisti).

Ma la semplice illustrazione degli emendamenti – uno su tutti: se non si completa l’appello entro due anni (un anno per la Cassazione) muore il processo – veniva letta immediatamente dai più barricaderi come dichiarazione di guerra. “E’ sotto la luce del sole il momento che stiamo vivendo, eppure la riforma del processo penale arriva in Cdm: suona quanto meno indelicato”, si lamentava. Come la mela avvelenata tra le dee dell’Olimpo: ecco emergere d’incanto la posizione dei governativi draghiani (in questa fase, coincidono con i fedeli di Grillo) e quella della “variante Conte”, ovvero gli avanguardisti del nascente partito dell’ex premier. Rafforzati, tanto per non farsi mancare niente, delle ambiguità cui il M5S ci ha abituato in questi anni, da Bonafede per “fatto personale”, considerato pure che resta un fedelissimo di Di Maio.

Il risultato della mossa di Draghi e Cartabia si traduceva in altre 48 ore di delirio cinquestelle, con riunioni, telefonate e voci dal sen sfuggite (tutte regolarmente anonime, come ormai d’uso tra di loro, consegnati al silenzio) per definire due linee inconciliabili. Ma all’idea di una prudente mediazione, con Di Maio riuscito a convincere persino Bonafede a non far cagnara, ecco seguire la chiamata alle armi, ieri mattina, dalle caserme del Fatto quotidiano. Prima pagina ad alzo zero: “Il nuovo Salvaladri”.

Nell’editoriale travagliesco, si arrivava a definire “Draghi & Cartabia come B.” e il punto di mediazione della Cartabia come “più grave del Salvaladri di Biondi nel ‘93”. Con il richiamo a una sollevazione, prontamente accolto dai contiani oltranzisti, la posizione dell’ex guardasigilli non poteva che venir risucchiata in un battibaleno. Superata in pochi attimi anche la tenue disponibilità dichiarata dal presidente della commissione giustizia, Mario Perantoni: “Il Movimento valuterà senza preclusioni in modo costruttivo e propositivo qualsiasi integrazione che garantisca lo spirito e gli obiettivi della norma Bonafede, che deve restare ferma”. Anche perché, come non aveva mancato di far rilevare il Fatto, essa costituiva uno dei punti dell’accordo per la nascita del governo Draghi. Ma così i tentativi di accontentarsi di una “riforma Bonafede mantenuta sostanzialmente” erano già finiti al macero.

In mattinata il capogruppo in commissione, Eugenio Saitta, si faceva promotore di un’assemblea congiunta dei parlamentari M5S, da tenersi prima del Cdm. “Ma poi chi si farà carico delle nostre posizioni, in Cdm?”, si chiedevano angosciati in tanti, facendo rilevare uno scollamento non da poco tra governisti e contisti. C’era chi andava in crisi parossistica per non aver ricevuto nessun testo da via Arenula, mentre altri proponevano il rinvio in corner: “Rinviare tutto, prendere tempo: è l’unica”. Chi paventava il rischio di venir additati come “sabotatori della riforma, perché su questo tema siamo soli, sono tutti contro di noi”.

A metà mattinata il ministro degli Esteri si precipitava a Palazzo Madama per un incontro urgente con Danilo Toninelli, giustizialista ma ancora fedele a Beppe e probabilmente ora afflitto ancor più da mal di testa causati da tutti questi giri di valzer ravvicinati. Alla riunione si sarebbero presto uniti Patuanelli, Bonafede e capigruppo, in collegamento con Fico.

Molti “sotto-big”, nel frattempo, ammettevano una situazione border-line: “Su questa cosa può succedere di tutto”, annunciava il solito incendiario. “Già troppi i governi caduti per la giustizia, non potremmo mai farlo…”, annacquava il pompiere. Il finale raccontava di una desolante diversità di vedute, sancita dai cronisti e da una nota intempestiva che annunciava “astensione” su tutta la linea. Off the records era uno dei “big” a coltivare un veritiero senso della giornata: “Certo che non ci sta bene… E’ una sconfessione della nostra riforma, però adesso il punto diventa un altro: come uscirne?”. Dal punto di vista tecnico, l’aggiustamento arrivava poco dopo, dall’ultima delle riunioni pre-CdM: inserimento dei reati contro la PA, come la corruzione e la concussione, tra quelli con tempi processuali un po’ più lunghi (un anno), e classico rimando a “miglioramenti ulteriori in Parlamento”. 

Così anche lo stentato “sì” dei M5S poteva dirsi conquistato. Ma se il governo allunga, la tela grillina sembra ancor di più sul punto di strapparsi.


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