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Un'aula di tribunale

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Conte dice di stare facendo una battaglia di principi, non di bandierine e, come diceva un personaggio di Shakespeare, Conte è un uomo d’onore, ma che lo voglia o no quella che sta facendo è una battaglia a difesa di ciò che aveva ottenuto la sua parte. Che poi siano norme che trovano consenso anche in certi ambienti della magistratura e della pubblica opinione non meraviglia, perché sappiamo bene quanto in tempi di crisi il giustizialismo sia una componente costante.

E’ tutto un sistema ribaltato, in cui alla necessità di rendere efficiente il nostro sistema giudiziario viene anteposta quella di non avere limiti di tempo nell’attività inquisitoriale: un paradosso che non sarà semplice spiegare in futuro quando si farà la storia di questi confusi anni. La via d’uscita per salvare l’onore delle armi al grillismo ormai colto in fallo è al solito quella di ricorrere alla demagogia: ci arrendiamo a che si stabilisca una ragionevole durata per i processi, ma non per quelli che riguardano mafia, terrorismo, corruzione nella pubblica amministrazione (gran brutte cose!). Probabilmente su questa impostazione si troverà un accordo pasticciato, ma, ci permettiamo di dire, gli accordi pasticciati hanno vita breve.

Senza pretendere di essere dei costituzionalisti visto che non lo siamo, ci permettiamo di sollevare un dubbio. Come finirà quando si sollevasse davanti alla Corte Costituzionale il problema del diverso trattamento che lo stesso reato riceve se rientra nelle tre categorie sopra ricordate o se non vi ricade? Ci possono essere ovviamente aggravanti per la presenza di quelle fattispecie, ma le aggravanti implicano aumenti di pena, non trattamenti processuali diversi.

Comunque a prescindere da queste osservazioni che lasciamo agli specialisti, sarà difficile sul piano politico che questa battaglia sulla riforma Cartabia non lasci strascichi che riaffioreranno in continuazione durante tutto il prosieguo dei lavori per mettere a punto le altre riforme e più in generale le altre normative che riguarderanno l’implementazione del PNRR (e non solo). E’ piuttosto ipocrita sostenere che si vuole che il governo Draghi continui il suo lavoro sino a fine legislatura se poi si mina in continuazione l’accordo di tregua politica che è stato alla base della sua nascita.

In questa difficile contingenza, con la pausa estiva che incombe (per breve che possa essere), con il problema in autunno delle elezioni amministrative e non solo, con il tema che sta diventando sempre più spinoso della successione a Mattarella, seminare la vita politica di questioni identitarie da parte di tutti i partiti non sembra una strategia illuminata. Ovvio che in questo delicato campo se lo fa uno se li tira dietro tutti, perché diventa una questione di … par condicio.

Il contesto però impedisce a Draghi di mettere tutti veramente di fronte all’alternativa fra il trovare l’accordo o andare alla prova delle urne. Non solo perché siamo ormai in semestre bianco e non si può, ma perché anche il premier non se la sente di mettere a rischio i fondi europei, per di più per una battaglia in cui non potrebbe neppure combattere in prima persona, perché non ha un suo partito che possa pensare di uscire dominante e dunque si finirebbe semplicemente di dare campo allo scontro fra questi partiti che si stanno mostrando incapaci di fare una politica orientata al futuro del paese.

Dunque come si andrà avanti? La domanda è d’obbligo e la risposta non è facile. Sembra che sia tutta una tattica di posizionamenti e di assaggi reciproci circa la forza degli avversari, ma anche circa la tenuta delle proprie truppe. Ne esce un gioco al logoramento, come stiamo vedendo su un terreno delicato come è quello del contrasto alla pandemia, dove non si riesce ad imporre un vero approccio di squadra. Sembra si torni ad un gioco al recupero di queste e quelle corporazioni per mettere tutti in qualche modo sullo stesso carro, sperando di non vedere radicarsi contrapposizioni: il richiamo come “consulenti” di un ministero insieme della Fornero e di Arcuri ci sembra molto una roba in questa direzione (da DC nei periodi di confusione).

Al tempo stesso più o meno sotto traccia c’è un lavoro al discredito sulle possibili candidature alla successione di Mattarella. Facciamo fatica a non leggere gli attacchi a Draghi e alla Cartabia in quest’ottica, sebbene non si capisca a cosa si punterebbe in alternativa. I veleni nella costruzione delle candidature per il Quirinale sono un dejà vu della nostra storia politica e in genere hanno portato a risultati non brillanti. Con un mandato lungo come quello del Presidente della Repubblica non ci troviamo davanti ad un piccolo problema.

E’ per tutte queste ragioni che chiudere in maniera adeguata la partita sulla riforma Cartabia sarebbe di grande importanza. Anche perché ci permettiamo di far notare che al momento si sta parlando di una approvazione alla Camera, poi si dovrà passare al Senato e sarà dopo l’estate, cioè dopo un periodo che di questi tempi può portarci non poche novità. Ecco perché chiuderla a qualche verso giusto per accontentare Conte e i Cinque Stelle temiamo serva a poco. Il tappeto sotto cui si cerca di spazzare la polvere sarà rialzato al Senato e in condizioni che potrebbero essere non semplici (andamento della pandemia, campagna elettorale e quant’altro).

Se non si trova davvero una soluzione al problema dell’efficientamento del nostro sistema di giustizia penale, il demagogismo giudiziario ci ricadrà addosso con tutte le conseguenze sgradevoli che abbiamo già sperimentato.


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