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E poi c’è l’ipocrisia. Ossia la materia oscura che sostanzia lo scontro arrivato all’atto finale dopodomani del voto in aula – forse addirittura con la fiducia – che ha plasmato il confronto (ma più adeguato sarebbe dire la guerriglia) sulla riforma della giustizia. Che ha alimentato il mastodontico playback di politici, magistrati, comunicatori, giornalisti che muovono le labbra per dire una cosa ma il suono che fuoriesce e identifica il significato, è tutt’altro.

Esacerbando la doppiezza che sta in uno straccio di scalpo da consegnare ai pasdaran dell’onestà-onestà surrettiziamente trasformandola in grande vittoria, e la tartuferia di chi vaticina sconquassi nelle indagini e impensabili favoritismi a chi delinque facendo finta di ignorare che il servizio giustizia in Italia è già uno sconquasso con processi che durano decenni, diritti calpestati, professionalità di tante toghe sbriciolate.

Rinfocolando la perfidia di chi per contrastare un’iniziativa che disapprova non attacca le proposte ma la o le persone che quelle proposte avanzano, in un rovesciamento mefitico del precetto sessantottino per cui il politico è personale: e il secondo diventa la mannaia per fare a pezzi il primo.

C’è tutto questo e anche molto di più nel conflitto che oppone chi sostiene, seppur con qualche inevitabile concessione e mediazione, la legge della Guardasigilli Marta Cartabia e chi invece vuole farla diventare la trincea da difendere a tutti i costi per non imbrattare l’identità che si è costruita. E perdere così ruolo e potere.

Soprattutto – e il quantum eccezionale di ipocrisia sta qui perché è una cosa che tutti sanno e nessuno afferma – in ballo c’è il riequilibrio tra politica e giustizia, tra due dimensioni istituzionali e statuali che vivono da decenni in una condizione di contrapposizione impropria e inquietante, rotelle di un ingranaggio che invece di muoversi in sinergia ciascuno nel suo ambito per garantire una funzione fondamentale per la vita democratica, lottano e confliggono sgambettandosi come due Moloch ognuno che brama di disarticolare l’altro.

Una situazione che ci fa essere un caso straordinario in Europa al punto che la stessa Commissione di Bruxelles ha dovuto reclamare un intervento per modificare questo scenario anche ai fini della concessione dei finanziamenti del Recovery.

Il punto di partenza dello squilibrio ha una data precisa: il 28 ottobre 1993 quando il Parlamento modificò l’articolo 68 della Costituzione – che non era stato scritto da Berlusconi, De Mita o Craxi bensì dai padri della Patria e costituenti De Gasperi, Ruini, Togliatti e Nenni – cancellando l’obbligo di autorizzazione a procedere nei riguardi di un membro delle Camere messo sotto accusa.

A quel voto si arrivò sull’onda di Tangentopoli e dell’inchiesta Mani Pulite che aveva raso al suolo un sistema partitocratico elefantiaco, anchilosato, marcescente e incapace di autoriformarsi. Provocando altresì uno sbilanciamento in cui una parte della magistratura si è infilata per svolgere una inopportuna e (si può dire?) anticostituzionale funzione di supplenza politica.

Da quel momento il sistema Italia per quel che riguarda il meccanismo giudiziario ha imboccato una china perversa che ha portato da un lato alle leggi ad personam di Berlusconi fino all’obbrobrio del voto sulla nipote di Mubarak e dall’altro allo scoperchiamento del meccanismo-Palamara con cene, pastette, giochi di corrente e sete di potere che ha lasciato sbigottiti e sfiduciati i cittadini.

Adesso è il momento di riequilibrare. Nessuno può pretendere di avere la bacchetta magica per un autoproclamato provvedimento palingenetico e salvifico; nessuno può pensare di svicolare rispetto ad una esigenza ormai ineludibile. Politica e magistratura, nel rispetto reciproco e nel riconoscimento ciascuno dei compiti e del ruolo dell’altro, devono affrontare il nodo. E scioglierlo lasciando al Parlamento l’inalienabile diritto-dovere di legiferare secondo i criteri che gli sono propri; e ai magistrati quello di applicare le leggi senza privarli della garanzia di poter esprimere il loro parere e far risaltare eventuali incongruenze. Ma sempre ognuno rispettando la funzione istituzionale dell’altro.

Il riassestamento è indifferibile. Come ha ben detto la ministra della Giustizia, lo statu quo non è una opzione. Dunque la riforma va fatta con buona pace di non vuole muovere nulla per non perdere le posizioni acquisite proprio in virtù e a causa di quel non più sopportabile squilibrio. Sullo sbilanciamento tra politica e giustizia in molti hanno costruito immagine, carriere, vantaggi, rendite politiche, notorietà. È stato un periodo troppo lungo di ambiguità, invasioni di campo, subalternità.

Ora è suonato il gong di fine corsa. La riforma della giustizia non può essere sacrificata sull’altare degli ideologismi, delle furbizie, delle convenienze. Quel che serve all’Italia è un sistema di norme eque ed equilibrate per consegnare un servizio giustizia all’altezza delle necessità e dei bisogni dei cittadini. Al contrario non v’è alcun bisogno di cattivi maestri e di obliqui e strumentalizzanti guaiti per salvaguardare i propri interessi.


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