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Mario Draghi

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C’è un doppio bilancio che può cominciare ad essere abbozzato in vista dell’ultima giornata del G20 di Roma. Il primo riguarda i lavori del summit delle venti Nazioni più industrializzate del mondo. Ci sono luci ed ombre, com’era ampiamente prevedibile.

Le luci riguardano l’impegno a destinare miliardi di dosi di vaccino anti Covid ai Paesi più poveri, integrando la cooperazione internazionale e quel “multilateralismo” in versione sanitaria e non solo che nella valutazione di Mario Draghi è l’unica strada per costruire un mondo più equo e più solidale. Idem per la Global minimum tax, forse l’antidoto più efficace per stroncare le delocalizzazioni e suturare le ferite all’occupazione che le multinazionali con più di venti miliardi di euro di fatturato stanno provocando spostando la produzione là dove risulta più conveniente sotto il profilo fiscale. Gli Usa si rivendono questa decisione come una svolta a favore della middle class ed è vero: soprattutto è un deciso passo in avanti per rendere più equilibrato il meccanismo di tassazione a livello globale.

Le ombre riguardano la transizione energetica, il più drammatico dei problemi del pianeta, dove gli interessi degli Stati più ricchi rispetto a quelli in via di sviluppo e dei dei player internazionali con maggiore possibilità di manovra, divergono ancora troppo per trovare una compensazione soddisfacente. Così la lotta alle produzioni inquinanti al fine di abbattere le emissioni inquinanti e raggiungere aliquote ambientalmente accettabili viene rinviata ad una eterea metà secolo: troppo poco per impedire il collasso del pianeta. Così impostata la questione, è facile prevedere che anche il summit Cop26 di Glasgow non porterà significativi passi avanti.

È tuttavia innegabile che un sforzo per un maggior coordinamento e coinvolgimento a livello mondiale è, seppur in modi contraddittori, in atto: chi usa la sprezzatura per giudicate il vertice e dice che sono solo bla bla farebbe bene a riflettere sul fatto che queste occasioni sono le migliori per far emergere la supremazia del modello democratico rispetto ai regimi autoritari. E non esportando modalità e regole sulla punta delle baionette bensì attraverso azioni coordinate e successi sul campo che evidenzino come la democrazia è il regime migliore per difendere gli interessi dei più deboli.

Ma c’è anche un altro bilancio, che ci riguarda più da vicino e che consente di renderci orgogliosi. Si tratta dell’innegabile successo colto dalla leadership di Mario Draghi sotto gli occhi dei Grandi del mondo. Presentatosi al vertice con alle spalle un rimbalzo del Pil superiore anche alle più rosee previsioni, al presidente del Consiglio italiano sono stati tributati riconoscimenti degni di una star. I complimenti espliciti – non nuovi ma ribaditi nell’occasione più formale e importante – arrivati da Joe Biden e da Boris Johnson; il fatto che gli Usa abbiano riconosciuto a Roma, in un vertice bilaterale, lo sgarbo verso la Francia sulla vicenda dei sottomarini australiani; gli omaggi consegnati a SuperMario da personaggi inquietanti come Bolsonaro ed Erdogan rappresentano la conferma che l’azione di governo di Draghi, unitamente agli sforzi compiuti dalla eterogenea e litigiosa maggioranza di quasi unità nazionale che lo sostiene, ha cambiato la prospettiva dell’Italia nel mondo, facendole riconquistare un ruolo ed una posizione più in linea con la sua storia e le sue ambizioni.

Si tratta di una tesoretto di credibilità, autorevolezza e prestigio tutt’altro che trascurabile e che qualunque testa che abbia a cuore l’interesse nazionale piuttosto che quello proprio non può che accogliere con soddisfazione. La domanda è: in attesa della giornata finale, che ci facciamo e come impieghiamo fin da subito un tale risultato, come possiamo spenderlo per migliorare le condizioni del Paese?

Senza cedere alla piaggeria, peraltro del tutto fuori luogo e dannosa in una fase così delicata, è complicato non riconoscere l’indispensabilità che SuperMario in pochi mesi ha saputo conquistare. Mancano poco più di due mesi al passaggio più delicato e carico di valenze per il futuro di tutta la legislatura: l’elezione del successore di Sergio Mattarella nel momento in cui l’attuale capo dello Stato (ma in sostanza l’ha già fatto) rendesse definitivo il diniego ad una ricandidatura. Partiti, leader, forze politiche si dividono su dove è meglio collocare Draghi, se lasciarlo a palazzo Chigi o promuoverlo sul Colle. Sono discussioni impregnate di strumentalità e trappole, secondo un costume politico tutto italico che sciaguratamente non riusciamo a scrollarci di dosso.

Si vedrà: il tempo scorre velocemente. Ma la cosa che comunque resta impressa è che la figura di Draghi si staglia con un rilievo specifico che è riconosciuto a livello mondiale. Il capo del governo sparge un alone di competenza e capacità che solo un riflesso di puro masochismo potrebbe oscurare. Significa che qualunque sia la destinazione che partiti e Parlamento vorranno assegnare a Draghi la cosa davvero fondamentale è che l’Italia non rinunci al suo apporto. Guai se calcoli di distorto interesse, per esempio quelli legati alla sopravvivenza della legislatura solo per consentire ai parlamentari di prima elezione di arrivare a ottenere l’assegno pensionistico, possano sovrapporsi e sopraffare quelli legati alle scelte più lungimiranti per il Paese. Oppure se le ambizioni di questo o quel leader offuscassero la necessaria disponibilità a trovare intese per definire il profilo più adeguato al vertice delle istituzioni dello Stato.

Draghi ce lo siamo ritrovato alla guida del governo sulla scorta di un collasso della politica e di una emergenza sanitaria. L’atteggiamento più pernicioso sarebbe di cancellare la memoria a favore di vantaggi effimeri e di corto respiro.


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