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L’effetto del Covid non è stato lo stesso in Italia, al Sud ha danneggiato i bilanci delle Regioni molto più che al Nord

Il Covid-19, soprattutto nel 2020, ha aggravato ulteriormente la situazione delle casse delle Regioni del Sud mentre il Nord ha beneficiato di un maggior aumento del personale sanitario. È in sintesi, quanto emerge da un report realizzato dall’Ufficio parlamentare di Bilancio che ha analizzato l’impatto della pandemia sui bilanci di 72 ospedali italiani, quelli esistenti dal 2015 al 2021, confrontando i conti economici del biennio 2020-2021 con quelli del quinquennio precedente. In sostanza, il Sud ci perde ancora e il gap aumenta.

Analizziamo la situazione personale: nel 2020 il numero di medici e infermieri aumenta del 5,5% in tutta Italia, circa 8mila dipendenti in più. Ma mentre al Nord l’incremento in media supera il 6%, nel Mezzogiorno non si va oltre un +4%. Il Sud ha “perso” un altro 2% rispetto alle Regioni settentrionali, anziché ridurre il divario.

Rispetto alle qualifiche del personale assunto a tempo indeterminato, nel 2020 vi è stato un significativo aumento del numero di infermieri (+6 per cento rispetto al 2019, pari a +4.087 unità, a fronte di +2.780 tra il 2016 e il 2019) e di medici (+5,1 per cento, pari a +1.377 unità, contro +2.383 tra il 2016 e il 2019).

Per quanto riguarda il personale flessibile, nel 2020 è stato registrato un forte incremento, pari a circa il 30 per cento, ma anche in questo caso in favore del Nord che ha visto aumentare del 54% le sue piante organiche; 34% al Centro e appena il 19% nel Mezzogiorno. Anche in questo ambito, gli infermieri rappresentano la categoria con il maggiore aumento in valore assoluto (+1.392 unità) e, in questo caso, anche percentuale (+35 per cento).

Infine, per quel che concerne gli incarichi esterni e le collaborazioni, che nel passato si era cercato di limitare, nel 2020 si è registrato un aumento di circa 1.800 contratti attivi (+31,7 per cento), a seguito degli interventi emergenziali. Una situazione che va a incancrenire un deficit storico: basti pensare che dal 2012 al 2018 l’Italia ha “perso” oltre 42mila operatori sanitari, tra medici e infermieri e altre figure ospedaliere e il record spetta al Mezzogiorno e, in particolare, alla Campania che ha dovuto fare a meno di 10.490 dipendenti sanitari. In pratica gli ospedali si sono svuotati di dipendenti.

Colpa della spending review, ma soprattutto del blocco del turn over, che ha impedito di sostituire chi andava in pensione o si trasferiva altrove, e dei lacci e lacciuoli fissati dai ministeri dell’Economia e della Salute a quelle regioni, quasi tutte del Sud, che sono finite in piano di rientro. È quanto emerge da un altro rapporto, quello dell’associazione “Salutequità 2021”, che ha elaborato dati del ministero della Salute. La Campania non è l’unica danneggiata, la Calabria di operatori sanitari ne ha persi 3.889, il piccolo Molise 1.027, la Puglia 2.229.

Anche il Nord Italia ha visto una contrazione di dipendenti ospedalieri, ma ben più contenuta: per fare un confronto, gli organici della Lombardia si sono ridotti di 2.888 lavoratori, un quinto rispetto alla Campania, meno della Calabria e poco più della Puglia.

Non solo: la Lombardia, dal 2012 al 2018, non ha perso medici, anzi quelli sono aumentati: +290, mentre la Campania ha visto andar via 1.739 camici bianchi, la Puglia 374, il Molise 204. Anche il Veneto ha conosciuto una riduzione degli organici di 1.924 operatori sanitari, ma i medici “persi” sono stati solamente 73. La Toscana, come la Lombardia, ha potenziato il numero di medici: +97. L’Emilia Romagna ha limitato i danni con -1.328 dipendenti e -102 medici. La Campania ha anche il record, poco invidiabile, di infermieri persi: -3.251. Un progressivo depauperamento di risorse umane che ha svuotato gli ospedali di personale e competenze. E che ha aumentato, nel corso degli anni, il gap Nord-Sud.

E tutto questo si è ripetuto anche durante i due anni di pandemia Covid-19 più intensi, 2020 e 2021. In Puglia, dove si conta una popolazione di 4 milioni di abitanti, attualmente il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; in Emilia Romagna (4,3 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,8 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. La Campania, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari, persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità.

Parlare di liste di attesa e mobilità passiva a fronte di questi numeri diventa quasi superfluo: come si può chiedere alla Puglia, a quasi parità di popolazione, di riuscire a svolgere lo stesso numero di esami e visite mediche che si riescono a fare in Emilia Romagna che ha 22mila lavoratori in più?

Tornando alla relazione parlamentare, il quadro che emerge è anche quello di un generale peggioramento dei conti degli ospedali dovuto sia alla riduzione dei ricavi sia all’aumento dei costi. In valore assoluto, lo scostamento costi-ricavi delle aziende ospedaliere italiane è passato da circa 360 milioni nel 2019 a quasi 2,6 miliardi nel 2020 e a più di 3,2 miliardi nel 2021. Ma ancora una volta a pagare dazio è soprattutto il Mezzogiorno: il Nord, grazie in parte anche ai “viaggi della speranza”, è riusciti a stabilizzare i ricavi (+1,3 per cento nel 2021 rispetto al 2019), che invece sono diminuiti nel 2020 nel Mezzogiorno (-7,2%).

Il Sud ha subito la maggiore riduzione dei ricavi da prestazioni (-13,3 per cento), seguito dal Centro (-9,8 per cento) e dal Nord (-4,4 per cento). Nel 2021, invece, il Centro si è caratterizzato per una minore capacità di recupero (+0,8 per cento), mentre il Mezzogiorno ha ottenuto il tasso di crescita più elevato (+5,3 per cento).


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