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Al Sud peggiori condizioni della sanità, meno prevenzione e più alta mortalità oncologica e ora incombe il rischio autonomia differenziata

DUE donne, una emiliana, l’altra calabrese, hanno la stessa patologia oncologica ma una diversa possibilità di futuro che riflette il gap tra Nord e Sud nella sanità, e si traduce in un divario nel diritto alla buona sanità: sono le protagoniste del video che ha fatto da prologo alla presentazione del rapporto “Un Paese, due cure. I divari Nord – Sud nel diritto alla salute”, realizzato da Svimez in collaborazione con Save The Children.

I numeri messi nero su bianco mostrano come la loro possibilità di futuro dipenda dalla disponibilità di cure – che è non pari sul territorio – che si declina su tanti fronti: dagli screening periodici nell’ambito della prevenzione alle apparecchiature necessarie, dalla qualità delle strutture sanitarie alla loro prossimità, tutti elementi che sono alla base di quel turismo sanitario verso le regioni centro-settentrionali che fa ancora grandi numeri e che comunque non è alla portata di tutti, alimentando il fenomeno dell’impoverimento sanitario, ovvero il peggioramento delle condizioni economiche familiari, se non la rinuncia alle cure.

È su questa Italia già drammaticamente “spaccata”, l’innestarsi di forme di autonomia differenziata non potrà che approfondire il solco, mettendo ulteriormente a rischio il principio dell’equità orizzontale della sanità con ulteriori penalizzazioni per il Sud. I numeri offrono una fotografia allarmante, che il pacchetto di prerogative che la riforma Calderoli “consegna” alle Regioni, non potrà che aggravare. Senza considerare il fatto che “quelle del Sud, tra piani di rientro e commissariamento della sanità, hanno le ganasce e non possono prendere nessuna autonomia regionalistica”, sottolinea il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, intervenuto alla tavola rotonda, insieme al direttore di Svimez, Luca Bianchi, Raffaella Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the children, e Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva.

I numeri, illustrati da Serenella Caravella, ricercatrice della Svimez, mettono a fuoco un aumento dei divari territoriali in un contesto di debolezza generalizzata del sistema sanitario nazionale, che il confronto con gli altri Paesi europei mette ancora di più in evidenza: le risorse pubbliche stanziate sono in media pari al 6,6% del Pil, contro il 9,4% della Germania e l’8,9% della Francia, a fronte di un contributo. La spesa sanitaria pubblica reale pro-capite è calata sul suolo tricolore del 2% tra il 2010 e il 2022, mentre è aumentata del 38% in Germania e del 32% in Francia. L’incidenza della spesa sanitaria privata, pari al 24% della spesa sanitaria complessiva, è invece quasi doppia rispetto a quella di Francia e Germania, rispettivamente al 15,2% e al 13,5%.

I dati relativi alla spesa sanitaria pro capite nelle singole regioni spiegano il divario: per la spesa corrente la media italiana è di 2.140 euro, che in Calabria scende a 1.748 euro, in fondo a un’ideale classifica anche Campania (1.818 euro), Basilicata (1.941 euro) e Puglia (1.978 euro). Guardando al Nord, giusto per fare qualche esempio, è pari a 2.583 euro in Friuli, a 2.495 euro in Emilia Romagna, Per la parte di spesa in conto capitale, i valori più bassi si registrano in Campania (18 euro), Lazio (24 euro) e Calabria (27 euro), a fronte di una media nazionale di 41 euro. Mentre risalendo la Penisola, il Friuli si attesta sui 60 euro, 63 il Veneto, 85 euro la Valle d’Aosta. Sulla qualità delle prestazioni e dei servizi offerti è “illuminante” il monitoraggio Lea, i Livelli essenziali di assistenza (prestazioni, distrettuale, ospedaliera), in cui spiccano i deludenti risultati del Mezzogiorno, dove 5 regioni risultano inadempienti (non raggiungono il punteggio minimo, ovvero 60 su una scala da 0 a 100).

Nella fotografia scattata nel rapporto Svimez emergono altri dati drammatici: su 1,6 milioni di famiglie italiane in povertà sanitaria – perché hanno avuto difficoltà nel sostenere le spese sanitarie, o hanno rinunciato alle cure – 700 mila vivono al Sud. Qui la povertà sanitaria riguarda l’8% dei nuclei familiari, una percentuale doppia rispetto al 4% del Nord-Est (5,9% al Nord-Ovest, 5% al Centro). Un altro primato negativo è sulla speranza di vita alla nascita che è 81,7 anni (dato 2022) per i cittadini meridionali, in media 1,5 anni inferiore a quella dei settentrionali. Ma il divario si riscontra già nelle culle: secondo gli ultimi dati Istat disponibili, il tasso di mortalità infantile (entro il primo anno di vita) era di 1,8 decessi ogni 1000 nati vivi in Toscana, ma era quasi doppio in Sicilia (3,3) e più che doppio in Calabria (3,9). E nel Mezzogiorno è più alta anche la mortalità per tumore che è pari al 9,6 per 10 mila abitanti per gli uomini rispetto a circa l’8 del Nord; per le donne è rispettivamente a 8,2 e inferiore a 7 al Nord: nel 2010, si rileva nel rapporto, i due dati erano allineati. E su questo fronte “la partita” si gioca soprattutto sul campo della prevenzione: tra il 2021 e il 2022 circa il 70% delle donne tra i 50 e i 69 anni si sono sottoposte ai controlli, due su tre aderendo ai programmi di screenig gratuiti messi in campo dalle Regioni. Anche qui la copertura è diversa sul territorio: si va dall’80% nel Nord al 76% nel Centro, fino ad appena il 58% nel Mezzogiorno. Prima in classifica il Friuli-Venezia Giulia (87,8%), fanalino di coda la Calabria, dove solamente il 42,5% delle donne di 50-69 anni si è sottoposto ai controlli.

Per quanto riguarda la possibilità di fruire degli screening organizzati, la percentuale delle donne oscilla tra il 63 e il 76% in Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, P.A. di Trento, Umbria e Liguria e circa il 31% in Abruzzo e Molise. Le quote più basse si registrano in Campania (20,4%) e in Calabria, dove le donne che hanno effettuato screening promossi dal Servizio Sanitario sono appena l’11,8%, il dato più basso in Italia: numeri che in queste regioni hanno molto a che fare, oltre che nelle difficoltà sull’organizzazione delle campagne di prevenzione, spiega Caravella, con la carenza di personale, l’obsolescenza dei macchinari, tutti fattori che giustificano una scarsa fiducia nella qualità dei servizi.

La “fuga” dal Mezzogiorno verso le strutture sanitarie del Centro e del Nord ha numeri importanti: nel 2022, dei 629 mila migranti sanitari, il 44% era residente in una regione meridionale. Per le patologie oncologiche, 12.401 pazienti meridionali (il 22% del totale) si sono spostati per ricevere cure negli ospedali del Centro e del Nord. In direzione opposta hanno viaggiato solo 811 pazienti del Centro-Nord (lo 0,1% del totale). Ed ancora la Calabria a detenere il primato del “turismo sanitario”: il 43% dei pazienti si rivolge a strutture sanitarie di regioni non confinanti. Seguono Basilicata (25%) e Sicilia (16,5%). Per i pazienti pediatrici “l’indice di fuga” nel 2020 si è attestato in media all’8,7% a livello nazionale, con differenze territoriali che vanno dal 3,4% del Lazio al 43,4% del Molise, il 30,8% della Basilicata, il 26,8% dell’Umbria e il 23,6% della Calabria. Nel complesso, “la fuga per farsi curare vale 4,25 miliardi”, è la stima fornita da Cartebellotta.

L’attuazione dell’autonomia differenziata, si sostiene nel report, rischia di aggravare ulteriormente il divario tra Nord e Sud, creando una maggiore sperequazione finanziaria e, di conseguenza, ampliando le diseguaglianze nel diritto alla salute e il fenomeno della mobilità in sanità (che porta altri soldi nelle casse delle regioni di destinazione). “La concessione di ulteriori forme di autonomia – si sostiene – potrebbe determinare ulteriori capacità di spesa nelle Regioni ad autonomia rafforzata finanziate dalle compartecipazioni legate al trasferimento di funzioni e, soprattutto, dall’eventuale extra-gettito derivante dalla maggiore crescita economica”. Senza contare che la discrezionalità nella gestione e retribuzione del personale, la regolamentazione dell’attività libero-professionale, l’accesso alle scuole di specializzazione, le politiche tariffarie rafforzano la competitività del sistema sul fronte dell’attrazione di fondi e risorse umane – quest’ultime già carenti sull’intero territorio – e della possibilità di garantire servizi più efficienti. “Chi afferma che dall’autonomia trarranno vantaggio le regioni del Sud dice una balla spaziale”, la chiosa di Cartabellotta e non solo in sanità. Per Bianchi la possibilità di un riequilibrio della situazione passa “dall’aggiornamento del metodo di riparto delle risorse del fondo sanitario nazionale con gli indicatori socio-economici: i criteri di deprivazione sono al momento considerati solo marginalmente, sottostimando il bisogno di cura e prevenzione nel Sud”.


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