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Uno degli incendi in Aspromonte degli ultimi giorni

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di TONINO PERNA

SAPPIAMO che gli incendi hanno una storia millenaria che s’intreccia con la storia umana, con l’uso del fuoco, elemento divino e diabolico insieme.  Se gli incendi non sono una novità nella storia, oggi sappiamo che il mutamento climatico li rende sempre più possenti, frequenti (anche fuori stagione) e devastanti. Temperature sempre più alte e lunghi periodi di siccità fungono da moltiplicatori e portano al disastro a cui stiamo assistendo in tutto il mondo, a partire dall’Africa sub-sahariana (di cui non si parla), all’Amazzonia, Siberia, Australia, California, ecc. La prevenzione diventa pertanto una priorità, un obiettivo imprescindibile.  

IL METODO ASPROMONTE    

Nella  torrida estate del 2003, mentre tutta l’Europa del sud bruciava, dal Portogallo alla Grecia, mentre per l’ondata anomala di calore morivano nella sola Francia 25mila persone, venne alla ribalta dei mass media il caso del Parco nazionale dell’Aspromonte. Per la prima volta nella storia contemporanea, si parlava di questa montagna mitica e misteriosa, non per i sequestri di persona, né per gli omicidi di ’ndrangheta, ma per un sistema di contrasto agli incendi che da tre anni funzionava.

Il sistema era semplice e andava al nocciolo del fenomeno. Siccome non riusciamo a prevenirli, data la molteplicità delle cause e dei soggetti coinvolti, bisogna trovare il modo di spegnerli appena partono. Con un bando pubblico i circa 40.000 ettari di foresta del Parco nazionale dell’Aspromonte venivano dati in affidamento a soggetti del Terzo settore (cooperative, associazioni, ecc.) con un contratto che prevedeva un contributo iniziale, in base agli ettari adottati e alla orografia del terreno, e un saldo finale solo nella misura in cui gli ettari andati in fumo non fossero superiori all’1 per cento della superficie adottata. Veniva evitata la gara al ribasso dell’offerta economica che tanti danni ha provocato, e sostituita con altri parametri.    

Questi “contratti di responsabilità sociale e territoriale”  hanno rappresentato uno strumento per ristabilire un rapporto con questi territori abbandonati, spopolati, dove un tempo vigevano gli usi civici e tutta la comunità si faceva carico della manutenzione dei boschi, del loro uso a fini alimentari e non (legna da ardere, carbone e persino ghiaccio nelle aree di alta montagna).    

L’ATTENZIONE DELLA UE

Il cosiddetto “metodo Aspromonte” fu imitato da alcuni parchi nazionali e regionali, venne preso in considerazione da Bruxelles, dove nel 2005 chi scrive fu invitato dalla Commissione che si occupa di forestazione, biodiversità, ecc.  Fu introdotto in alcuni Comuni con delle interessanti varianti, che davano questa responsabilità territoriale ai contadini piuttosto che ai soggetti del Terzo settore. Infine, fu introdotto con una significativa innovazione dal professor Giuseppe Bombino, presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte dal 2013 al 2018, che coinvolse direttamente anche i pastori, dando loro non solo una gratificazione economica ma anche un ruolo di custodi del Pna.        

L’OBLIO

Insomma, sembrava logico che questa modalità di contrasto degli incendi diventasse una pratica comune. E invece nel tempo è caduto tutto nell’oblio.  Non a caso: il grande business delle società private che gestiscono l’antincendio ha prevalso e ci ha portato al disastro odierno. Oggi registriamo in Aspromonte tre vittime per gli incendi (non era mai successo) e centinaia di ettari di bosco, di pino laricio secolare, trasformati in cenere. E tutto questo senza che nessuno gridi allo scandalo di un Parco nazionale che una volta era un punto di riferimento delle buone pratiche e che oggi è stato  completamente abbandonato, senza alcun sistema di prevenzione degli incendi.

Certo, il surriscaldamento della Terra, estati sempre più afose, lunghi periodi di siccità, tutto questo sappiamo che è dovuto al mutamento climatico indotto dall’uomo, ma proprio per questo dovremmo attrezzarci. E invece la cosiddetta “resilienza” appare solo come un vezzo per giustificare investimenti, per utilizzare risorse comunitarie, ma non si vede un piano di resilienza per le città quanto per le zone interne.

Aspettiamo la prossima alluvione per gridare alla mancanza di cura del territorio quando potremmo  fin da adesso prendere atto che bisogna dare priorità alla manutenzione e stabilire una nuova relazione con l’ambiente in cui viviamo,  fondata sul principio della  responsabilità sociale e territoriale.    


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