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Otto volte ministro, Rino Formica, ha partecipato da protagonista assoluto alla politica del secolo scorso. Classe 1927, deputato e senatore in varie legislature, Formica è la trasfigurazione pietrificata di cosa è stato il socialismo al tempo di Nenni e Craxi. Ha coltivato una sua spiccatissima autonomia, è sempre sfuggito al codice della narrazione ordinaria. Dote, quest’ultima, molto apprezzata dai giornalisti. Tra le battute e gli aforismi che lo hanno reso celebre resta scolpita la frase di cui conserva tutt’ora il copyright: «La politica è sangue e merda».

Mai come in questo in caso quell’espressione sembrerebbe fare al caso dell’ex Ilva, onorevole.

«Si sta consumando una situazione nata male che impone ormai una scelta obbligata. Conviene a tutti chiudere con una lite. L’azienda cercherà di ottenere il massimo, succhiare ancora quel che c’è da succhiare mentre lo Stato interverrà in vari modi. Un giorno si farà un accordo per tenere buoni i sindacati; un altro si tenterà di accontentare gli ambientalisti, un altro si chiuderà un reparto, assumendo alla fine una cinquantina di dipendenti da qualche parte. Andrà come a Bagnoli, tutto già visto».

Che cosa poteva fare che non ha fatto, questo governo?

«La trama era già stata lacerata, bisognava avere la pazienza di ritessere i fili. Rammendare, filo per filo, a questo serve l’arte della politica».

Invece?

«Non si è capito il trauma sociale ed economico che la chiusura comporta. Governo gialloverde e governo giallorosso dimostrano anche in questo una continuità. Non per le persone bensì per la filosofia di fondo: vivono alla giornata. Rinviare, metterci una pezza per passare la nottata, che vuol dire arrivare alle prossime elezioni regionali in Puglia. La posta in gioco non è una scelta tecnica ma l’occupazione, la salute e lo sviluppo di un territorio abbandonato a un destino traumatico. Non siamo più al pluralismo delle idee ma al pluralismo dei reggimenti elettorali. I problemi vengono compressi finché alla fine esplodono».

Per il Mezzogiorno sarà la mazzata finale?

«È la punizione che ricevono le classi dirigenti degli ultimi 25 anni. Non hanno goduto della protezione della memoria. E la memoria è quella che ti consente di non ripetere gli stessi errori, che te li fa correggere. L’Italia repubblicana nacque su un progetto chiaro, che aveva memoria del passato. Le nuove classi dirigenti hanno ignorato la storia, hanno detto “la storia comincia da noi”».

Il ministro per il Mezzogiorno Beppe Provenzano ha annunciato un grande Piano per il Sud.

«Provenzano è un ottimo giovane che viene da una fucina importante come la Svimez, ma non è una situazione semplice. Il contesto politico è asfissiante».

Il clima, però, è cambiato.

«Con voi è partita l’operazione-verità. Va benissimo ma non basta. Per ora è solo un sentimento diffuso, fiammelle che si accendono. Servono forme organizzate. Le regioni meridionali si comportino come macroregioni. Stabiliscano alcuni punti sui quali intervenire congiuntamente, lavoro, sanità, formazione professionale, scuola. Serve una mobilitazione delle forze sociali e politiche. E un referendum che stabilisca una volta per tutte che un cittadino del rione Tamburi di Taranto avrà le stesse risorse di uno di Treviso».

Partiti e sindacati non godono di ottima salute

«Il sistema è degenerato. L’idea che non ci sia più una destra e una sinistra vuol dire la morte della politica. Il Sud rimarrà stretto tra assistenzialismo governista e ribellismo. Tra ascari in Parlamento e proteste alla boia chi molla! E poi c’è questa idea che la politica debba essere la professione dei nullafacenti. Vero il contrario. La politica non va fatta per professione ma con la passione della professionalità. La vita democratica è pulsione continua. Va ricreato lo spiritò che negli anni ’60 portò lo sviluppo nel Mezzogiorno, ci fu una vera e propria ondata culturale e politica. Intorno al compromesso Nenni-Moro si costituirono i comitati regionali per la programmazione. Poi arrivò l’ingresso nella Ue e quel processo rimase incompiuto. L’Italia è entrata nella globalizzazione senza una vera unificazione sociale, economica e politica. È l’origine di tutti i mali».

Lei non crede che ora i tempi siano maturi per una reazione?

«Non so… le dico però quello che rispose a noi giovani Ignazio Silone. Gli chiedemmo qual è il momento della rivoluzione. Con vezzo da letterato lui ci rispose: “Quando la vita di un uomo non conta più”».


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