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Claudio Regeni e Paola Deffendi, i genitori di Giulio Regeni

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Giulio Regeni, udinese padano del profondo nordest, era una persona seria con le stigmate del genio – sei lingue, il dottorato ad Oxford-, un sorriso luminoso e uno spiccato senso di giustizia sociale. Un italiano al di sopra della media.

Era degno figlio dei suoi genitori Claudio Regeni e Paola Deffendi che ora hanno lanciato una petizione on line diretta al presidente Conte per far ritirare l’ambasciatore italiano dall’Egitto: “Richiamare l’ambasciatore oggi è l’unica strada percorribile – chiedono- non solo per ottenere giustizia per Giulio e tutti gli altri Giuli, ma per salvare la dignità del nostro paese e di chi lo governa”. Ed è il minimo che lo Stato possa fare di fronte a questa vigliaccata poderosa che calpesta la dignità della nazione e il ricordo di un nostro martire.

Le cronache raccontano che si “è concluso con un nulla di fatto il vertice ‘virtuale’ tra la Procura di Roma e quella egiziana. Ancora nessuna risposta alla rogatoria inviata dalla Procura di Roma 14 mesi fa, anzi, i magistrati egiziani hanno chiesto nuovamente informazioni sull’attività di Giulio Regeni in Egitto, presentando altri 14 quesiti”, facendo balenare il sospetto che fosse una spia. Un affronto inaccettabile. Sull’attività di Giulio, infatti, era già fatta chiarezza e gli inquirenti egiziani hanno tutti i documenti in mano: è stato appurato che il ricercatore di Fiumicello stava portando a termine una ricerca per conto dell’Università di Cambridge.

Eppure gli stessi egiziani che l’hanno ammazzato girano la frittata è affogano nelle scartoffie e nella burocrazia qualsiasi indagine; l’Egitto ha fatto sapere, attraverso il magistrato Al Sawi, che “le richieste avanzate dalla procura di Roma sono allo studio per la formulazione delle relative risposte sulla base della legislazione egiziana”. Sono passati quattro anni di indicibili prese per i fondelli. I coniugi Regeni, pilastri d’acciaio nel franoso terreno della realpolitik internazionale, sono gli unici che, cocciutamente, non s’arrendono all’oblio.

E, a costo d’ogni umano spasmo, contrattaccano; sollecitano le coscienze; accusano l’Italia che vende perfino le armi al Cairo mentre il ministro Di Maio preferisce fare la supercazzola invece di prendere decisioni definitive. Io, dei Regeni, ho il ricordo di un appello pubblico nella trasmissione Che tempo che fa di Fazio, in un ricettacolo di emozioni autentiche e senso di patria. C’erano loro, c’erano i braccialetti gialli che identificano una «scorta mediatica» (promossa da Fnsi e Amnesty) alla stessa famiglia Regeni che non molla la presa col governo egiziano.

E c’era il filmato inedito girato di straforo in cui Giulio non vuole dare i soldi dell’università al sindacato degli ambulanti egiziani, «Non sono soldi miei, ne ho la responsabilità», detto in arabo; e c’erano le immagini delle marce e dei sorris, e gli attestati di solidarietà. E i Regeni erano lì, nel tumulto dei cuori e delle lacrime, che si stagliavano con forza innaturale. Accusavano i nostri politici, ravvivavano il ricordo. E mamma Paola chiosava declamando la loro missione: «Trovare verità e giustizia per lui significa fare sentire sicuri tanti altri giovani come lui in giro per il mondo».

Il marito annuiva accanto. C’erano il pubblico, e Camilleri, e attori di rango che applaudivano. L’ho fatto anch’io. È contronatura sopravvivere ai propri figli. Ma questo è sicuramente il modo migliore per farlo.

Avercene, di italiani così…


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