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Illustrazione di Roberto Melis

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La storia è spesso percorsa da ombre che si incarnano, di volta in volta, in forme diverse, interrompendo percorsi in modi imprevisti. Come se non ci fosse un vero disegno da perseguire e tutto fosse affidato a quel rapporto tra luce e ombra, al prevalere dell’una o dell’altra, che decide, fuori da ogni proponimento, di influenzare il suo divenire. Così è per il ritorno della pandemia.

In fondo, nessuno realmente ci pensava più. Pur essendo “attesa” nelle parole, non lo era nei fatti e nei comportamenti, ed è tornata, drammatica, in una prospettiva più oscura. Una volta c’erano le filosofie della storia che assicuravano all’umanità previsioni espresse in destini più o meno luminosi.

Da tempo questo rubinetto di idee si è chiuso, si è capito che la storia va di palo in frasca, come scrisse Musil, sembra fuori da ogni controllo possibile.

Guardiamoci intorno. Ecco il ritorno della pandemia, e il mondo si è come svuotato. La prima volta aveva creato aggregazione, spinta a un reciproco riconoscimento, e perfino balconi imbandierati; oggi è il contrario, si accentuano il disagio e il senso di solitudine.

La politica, da un lato, cerca di difendere la sopravvivenza dell’insieme di una società, dall’altro, nel disordine della rappresentazione sociale e culturale, sembra come sospesa su sé stessa, la vita della democrazia è ridotta all’osso.

Ma tante delle cose che avvengono oggi nel mondo globalizzato creano disagio e preoccupazione. L’America offre uno spettacolo inedito; il terrorismo, sconfitto nella sua forma statuale, torna e percorrere l’Europa.

Eppure, proprio da questo mondo globale, attraversato da tanti pericoli, può nascere un nuovo sentimento che deve trovare classi dirigente adeguate a interpretarlo. Esso sta nel senso di un destino comune dell’umanità, che proprio la pandemia spinge a vedere.

È necessaria una cura del mondo capace di guardare al futuro, “deve” nascere il senso della necessità di una lotta per una nuova uguaglianza, oggi, quando la comunicazione globalizzata ti mette sotto gli occhi i dolori del mondo, povertà, paura, e, insieme, straordinarie potenzialità.

Ma l’uso del “deve”, sembra voler accennare a qualcosa che non è, alla straordinaria difficoltà di questo compito del quale però non si può più tacere.


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