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Illustrazione dedicata alle smart city, le “città intelligenti” (foto da waidy.it)

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Le città hanno un’anima. Sembrerebbe un’affermazione troppo romantica e priva di ogni fondamento “scientifico” ma in realtà non è così. È invece una pessima attitudine propria dello scientismo – non della scienza – quella di sottovalutare o rimuovere o confinare all’irrilevanza aspetti e dimensioni di un fenomeno difficilmente inquadrabili attraverso la logica della misurazione. E qualche volta si tratta di aspetti essenziali, prescindendo dai quali ci si allontana dalla possibilità di una effettiva comprensione.

Le ormai tradizionali classifiche sulla “qualità della vita” nelle città o l’elaborazione dello Smart City Index (una graduatoria delle città più “intelligenti” del pianeta), soffrono dello stesso vizio di fondo: l’ossessione per la quantitativizzazione di “qualità” per la loro stessa natura non misurabili senza precipitare nel totale arbitrio, quando non nel grottesco o nel ridicolo.

La smartness di una città, la sua “intelligenza”. È il risultato di una combinazione di elementi infrastrutturali, livelli “prestazionali” e di accessibilità dei servizi e applicazione di tecnologie avanzate nel favorire la vivibilità e la sostenibilità. Non è poco ma basta? Sorvolando sui dubbi che emergono circa l’arbitrarietà degli indicatori e le metodologie utilizzate per le valutazioni, la risposta è negativa: no, non basta. Perché manca l’anima.

Non sto parlando di qualcosa di vago e aleatorio – benché sfugga caparbiamente a tentativi di classificazione e standardizzazione – bensì di qualcosa di molto concreto.
Prendi Damasco, ad esempio. La più antica città ancora abitata esistente. È lì da 11.000 anni. U n d i c i m i l a. Quanto è smart Damasco? Eppure non è nemmeno ricompresa tra le 118 città considerate ai fini dello Smart City Index (perché proprio 118 sarebbe interessante saperlo…).

Prendi le capitali scandinave. Da anni sono saldamente nelle primissime posizioni nelle classifiche sulla qualità della vita e la sostenibilità. Finlandia, Danimarca, Islanda, Svizzera, Paesi Bassi, Svezia occupano, nell’ordine, le prime posizioni nella classifica della felicità mondiale (il World Happiness Report) ma stabilmente figurano anche in posizioni molto elevate nella meno opinabile classifica dei tassi di suicidio. Strane aporie sulle quali riflettere.

Da qualche tempo tiene banco e si intensifica, alla luce dell’accelerazione del ritmo dei cambiamenti ambientali e tecnologici, il dibattito sulla città del futuro. Come dovrebbe essere la città di domani per essere vivibile ed ecologicamente sostenibile?

Di solito c’è una debolezza di fondo in questi pur interessanti ragionamenti, che riguarda l’effettiva realizzabilità concreta dei modelli proposti.

Di contro si assiste alle narrazioni su “dove stiamo andando?”; ovvero su quali saranno gli scenari metropolitani futuri se non invertiamo la rotta attuale. In questo caso predominano rappresentazioni prevalentemente distopiche basate sulla esasperazione delle caratteristiche del presente.

Senz’altro vi sono esperienze che è utile analizzare e comprendere, perché rappresentano “laboratori di futuro”, progetti avveniristici in grado di farci sbirciare i panorami urbani di domani.

I mutamenti ambientali dovuti al riscaldamento globale sono, ovviamente, tra i driver che maggiormente informano gli sforzi di immaginare soluzioni urbane per un pianeta in cui, in tempi non lontani, verosimilmente coesisteranno fenomeni di innalzamento dei mari, desertificazione e scarsità di acqua potabile.

Un gruppo di designer giapponesi ha progettato un sistema abitativo basato su case galleggianti completamente autonome in termini energetici e potabilizzazione dell’acqua marina, in grado di agganciarsi l’un l’altra formando configurazioni più solide in caso di necessità (ad esempio tempeste marine). Entro pochi anni, centinaia di queste capsule abitative autonome galleggianti potrebbero girovagare per la baia di Tokyo.

Del resto un’idea simile è alla base di The World (Il Mondo), l’arcipelago artificiale in corso avanzato di realizzazione a largo di Dubai (in ritardo per comprensibili vicissitudini tecniche ed economiche), composto da 300 isole disposte in modo da riprodurre la morfologia dei continenti. Qui manca l’elemento galleggiamento/mobilità però ma è presente, in una forma abbastanza estrema, uno dei leitmotif abitativi di maggiore successo negli ultimi anni, nel segmento di mercato elevato e non solo: l’isolamento, l’autarchia, l’idea della comunità chiusa, tendenzialmente autosufficiente, in cui i residui contatti fisici con il resto del mondo sono filtrati e ipercontrollati. The World potrà contare su un pattugliamento costante e intenso delle coste e, a tendere, prevede che gli abitanti possano “richiudersi” nella loro enclave dorata senza necessità di contatti con l’esterno. Insomma la realizzazione dell’utopia (o distopia?) della comunità chiusa e di dimensioni limitate, che stacca la spina dagli altri e si crea un micro-mondo ad immagine e somiglianza di chi la popola.

In fondo, un’idea analoga anima Telosa, il progetto di super smart-city, completamente privata, proposta dal miliardario americano Marc Lore. Il nome è senz’altro “programmatico” dal momento che in greco antico “telos” indicava “il fine ultimo”.

Trattasi di una metropoli completamente isolata, nel bel mezzo del deserto, da costruire facendo ampio uso di calcestruzzo stampato in 3D, ovviamente energeticamente autosufficiente, a bassissima impronta ambientale, con edifici dotati di sistemi di raccolta idrica e di coltivazione idroponica per produrre cibo a km 0.

Dovrebbe ospitare i primi 30.000 abitanti già entro il 2030 ed arrivare a 5 milioni nei successivi 4 decenni. Costo stimato 400 miliardi di dollari.

Progetti quasi sempre “iconici”, spesso stimolanti, ora originali ora bizzarri, talvolta improbabili. Difficile, tuttavia, che possano rappresentare un’anticipazione di standard futuri. Certo, sono ambienti di sviluppo e di sperimentazione di tecnologie innovative. Eppure forse rischiano di farci perdere di vista, con le loro fantasmagorie, le reali – e terribili – criticità abitative disseminate nel pianeta, di aggravare lo iato della diseguaglianza abitativa tra élite di privilegiati ed enormi masse di disperati.

Oltre 1 miliardo di persone attualmente vive in slums: barrios, favelas, bidonville… non mancano i sostantivi per indicare insediamenti nei quali, sostanzialmente, si registrano le medesime condizioni abitative sordide e inumane. Oceani di baracche di lamiere e vecchi pneumatici: inferni in terra. Come specie, possiamo anche progettare e realizzare le più avveniristiche e strabilianti smart city… ma fino a quando non troveremo soluzioni per intervenire sull’enormità delle disuguaglianze che abbiamo generato saremo ben lontani dal realizzare un mondo intelligente.


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