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Un'opera di Massimo Rao

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Se ne è andato presto Massimo Rao, pittore visionario che era nato a San Salvatore Telesino vicino a Benevento nel 1950, e aveva trascorso una parte della sua operosa giovinezza, tra il 1976 e il 1981, a Bolzano. Il passaggio al nord fu per Rao un’apertura di orizzonte sull’arte tedesca che gli consentì una singolare miscela con la grande pittura italiana, rinascimentale barocca. Ne è testimonianza esemplare l’ invenzione di un dipinto come “E venne un angelo”, che rivela la sua colta fonte nel Seicento fiorentino e nella esperienza anacronistica di Fabrizio Clerici, Riccardo Tommasi Ferroni, Mario Donizetti.

Il suo è un vero e proprio sogno della pittura, che non ha tempo e non si misura con il presente. Il dipinto di Rovereto è lo studio preparatorio per una più ampia composizione nella quale l’angelo emerge da uno scudo lunare e da un frammento di gusto classico. I riferimenti sono alla pittura di Sebastiano Mazzoni e di Alessandro Rosi ma anche a Johann Liss, pittore tedesco che maturò a Venezia.

La pittura neobarocca di Rao è fatta di queste contaminazioni. Le sue curiosità e la ricchezza delle sue conoscenze gli hanno consentito una produzione ricca e variegata nella concentrazione del suo rifugio vicino a Terni, dove si era ritirato negli anni precoci della sua maturità, a Pornello San Venanzio, un piccolo paese fuori da tutti i mondi possibili, lontano da qualunque altro luogo, dove Rao in uno studio molto rarefatto, con pochi oggetti, con un ordine straordinario, disegnava, disegnava, disegnava prima ancora che dipingere, e disegnava con l’urgenza di sa di avere poco tempo.

La tecnica di Rao è veloce, la definizione del disegno sicura. L’artista ama i panneggi, gli ampi drappi, i turbanti, tutto ciò che è suscettibile di piega. Egli è rinascimentale, barocco, neoclassico e romantico, indifferentemente e sempre con talento, ma è soprattutto il pittore della luna. La luna che domina i suoi quadri in modo ossessiva, conturbante. La luna – a dirlo con Rossana Bossaglia – come altro volto delle figure, cioè come maschera; e maschera anche di sé, dal momento che l’altra faccia della luna ci è ignota; luna come interlocutrice dolce ed infida dei solitari personaggi, sorridente nel suo inespugnabile silenzio. Rao ha la necessità di sperimentare, di creare, di percorrere e – come egli stesso affermava – di ricercare con emozionata voluttà le strade d’accesso alle cose che oltrepassano la realtà ed è per questo che le figure che dipinge non fanno quasi mai nulla di preciso e di riconoscibile, loro semplicemente sono e, stanno soltanto rappresentando e portandosi dietro e addosso, come tutti indistintamente facciamo, la loro vita, così com’è, sotto gli occhi di tutti.

«Rao è pittore difficile», scrive Ferdinando Creta, «acritico nella sua fedeltà all’immagine e alla tecnica tradizionale, pittore che richiede un avvicinamento lento, progressivo per un piacere sottile, intellettuale, eppure non d’élite. Con il suo lavoro, evidentemente insieme con altri come Clerici, Annigoni, Ferroni, Donizzetti, De Stefano, ha riaffermato, già in tempi non sospetti, il ritorno alla pittura» Le sue invenzioni lo rendono uno degli artisti più originali della sua generazione.


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