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Fino a qualche tempo fa, l’estate era estate per tutti o quasi. Si andava in ferie, scuole e università chiuse per mesi, il rito della villeggiatura: persino il calcio andava in vacanza. Era, insomma, un tempo sospeso anche per quel grande, enorme, invadente mondo del pallone e dei suoi protagonisti, veri e propri eroi della fantasia popolare (e non). Ovviamente in una società votata al guadagno, al fatturato, e anche per questo devota della velocità e della prestazione, tutto ciò non poteva durare: il calcio produce soldi, è di fatto anche una macchina da soldi gigantesca, arricchita peraltro da qualche anno dall’ingresso sulla scena mondiale di realtà nuove che immettono cifre spaventose nella macchina del divertimento di ventidue persone in pantaloncini che corrono per buttare un pallone dentro una rete.

E così prima gli Usa, ma poi anche la Cina e recentemente alcuni paesi arabi hanno alimentato un gigantesco tourbillon di persone e di soldi che, ovviamente, deve poi trovare compensazione economica in qualche modo: si spiega così, forse, la sparizione pressoché totale delle pause nel mondo del calcio. I campionati sono intarsiati con le coppe e con gli impegni delle rappresentative nazionali, e appena le vacanze fanno capolino entrano in scena tornei, trofei e manifestazioni varie che spingono le compagini più appetite dai mercati a veri e propri tour de force da una parte all’altra del pianeta. C’era una volta la serie A, che andava in campo con undici giocatori e una riserva: bisognava scegliere bene il panchinaro di turno, perché in caso di infortunio di qualche compagno di squadra avrebbe dovuto subentrare per sostituirlo. E a volte le cose si complicavano, da questo punto di vista.

Oggi? Le squadre hanno praticamente tesserati pari a due/tre squadre, e potrebbero tranquillamente giocare in due campionati in parallelo. È quasi un altro sport da quello della metà del secolo scorso, quello che ha visto affacciarsi sulla scena mondiale anche le prime squadre italiane nella gloriosa Coppa dei Campioni. Il calcio, fatalmente, riflette molti dei mutamenti che le società – non quelle calcistiche, si intende – mostrano, e come fenomeno sociale rilevante si adegua a modelli culturali e di azione che di volta in volta sono più congeniali alle diverse epoche, oltre che maggiormente redditizie per tutti coloro i quali ci lavorano.

È probabilmente questa la ragione che ha spinto moltissimi studiosi, nel corso del tempo, a scrivere di calcio da variegati punti di vista, anche se il tema del tifo e dei comportamenti collettivi legati alle gare di calcio è stato forse quello più analizzato. Il sociologo britannico Eric Dunning, scomparso nel 2019 dopo aver prestato servizio presso l’Università di Leicester e l’Università di Loughborough nel Regno Unito, ha lavorato molto sul comportamento dei tifosi e della cultura dei gruppi di tifosi nel calcio.

Uno dei suoi lavori più noti è il libro The Roots of Football Hooliganism: An Historical and Sociological Study uscito nel 1986, scritto in collaborazione con Patrick J. Murphy. In questo libro, Dunning e Murphy hanno esplorato le origini storiche del fenomeno del tifo calcistico violento nel Regno Unito, analizzando le dinamiche dei gruppi di tifosi e il ruolo delle competizioni calcistiche nell’evoluzione del comportamento dei tifosi. Un altro importante contributo di Dunning riguarda il concetto di “teoria dell’etichettamento sociale” applicato al tifo calcistico.

Secondo questa teoria, le persone possono conformarsi alle aspettative e alle etichette sociali che ricevono dagli altri. Dunning ha analizzato come l’etichettatura dei tifosi come “hooligans” (teppisti) possa influenzare il loro comportamento e come le politiche di controllo e gestione dei tifosi potrebbero essere modificate per evitare effetti controproducenti. Il suo lavoro è stato influente nel campo degli studi sul calcio e dei fenomeni sociali collegati al tifo, fornendo una prospettiva sociologica e storica sulla cultura dei tifosi e sulla violenza negli stadi. La sua ricerca ha contribuito a gettare luce sulle cause e le dinamiche del tifo calcistico violento, aiutando a informare politiche e strategie per la gestione e la prevenzione dei comportamenti problematici dei tifosi.

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Quello della violenza negli stadi è un tema che per anni ha appassionato i sociologi britannici. Anche Gary Armstrong, sociologo britannico che lavorato presso l’Università di Brunel e l’Università di Roehampton nel Regno Unito è stato coinvolto in diverse ricerche e pubblicazioni sull’argomento. Una delle sue opere più influenti nel campo del tifo calcistico è il libro Football Hooligans: Knowing the Score, scritto in collaborazione con Dick Hobbs. In questo libro, Armstrong e Hobbs analizzano il fenomeno del tifo calcistico violento nel Regno Unito, esplorando le cause sociali, culturali ed economiche di questo comportamento.

Hanno esaminato i contesti in cui si sviluppa il tifo violento, le dinamiche dei gruppi di tifosi e le identità collettive dei tifosi. Il lavoro di Armstrong ha contribuito a gettare luce sulle dinamiche sociali dei gruppi di tifosi e sulla comprensione delle motivazioni e dei fattori che possono portare alla violenza negli stadi. Le sue ricerche hanno fornito un’analisi sociologica critica del fenomeno del tifo calcistico, aiutando a informare le politiche di gestione dei tifosi e le strategie per promuovere un ambiente più sicuro negli stadi.

Ma il fenomeno del calcio e del tifo calcistico ha stimolato moltissimi autori, che ne hanno esplorato gli aspetti più variegati.
Fra gli altri, ricordiamo David Goldblatt, uno storico e scrittore britannico noto per i suoi libri sul calcio e la sua storia culturale. The Ball is Round: A Global History of Soccer è uno dei suoi lavori più conosciuti, in cui esamina il calcio come fenomeno mondiale e la sua interazione con la politica, la cultura e la società. Simon Kuper è invece uno scrittore e giornalista britannico che ha scritto ampiamente sul calcio e i suoi effetti sulla cultura e la politica. Il suo libro Calcio contro il nemico esplora il legame tra il calcio e la politica in diverse parti del mondo.

Lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano ha affrontato il calcio in diversi dei suoi libri, inclusi Il calcio agli dei e Il calcio è Dio . I suoi scritti esplorano le passioni e le contraddizioni del calcio in America Latina e oltre. Lo statunitense Franklin Foer ha invece scritto Calcio: L’incantesimo mondiale del potere , un libro che esamina il calcio come strumento di politica, economia e potere globale. Infine, anche se non è un autore specificamente legato al calcio, il giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuscinski ha trattato l’argomento in alcuni dei suoi reportage e libri. Le sue opere spesso esplorano l’aspetto socioculturale e politico del calcio in diverse regioni del mondo.

Ma probabilmente il libro che più di tutti gli altri ha fatto da apripista agli studi successivi sul fenomeno del calcio inteso nella sua globalità è stato La tribù del calcio di Desmond Morris, antropologo e zoologo britannico, noto soprattutto per i suoi studi nel campo dell’antropologia e della biologia comportamentale. L’opera si concentra sulle dinamiche sociali, comportamentali e culturali che ruotano attorno al calcio e alla sua influenza sulla società e sugli individui. Morris analizza il calcio come un’attività umana particolarmente significativa che unisce e divide le persone, creando una sorta di “tribù” moderna basata sulla passione per il gioco e l’appartenenza a squadre specifiche. Il libro è diventato un punto di riferimento nel campo degli studi culturali e antropologici sul calcio ed è stato apprezzato per l’approccio originale di Morris nel trattare il calcio come un fenomeno culturale complesso e influente.

Una delle teorie più conosciute di Morris riguarda il calcio come forma moderna di tribalismo. Egli paragona l’appartenenza a una squadra di calcio all’appartenenza a una tribù, con i tifosi che si identificano fortemente con la loro squadra e creano un senso di appartenenza e identità collettiva. Il calcio, secondo Morris, permette alle persone di esprimere e vivere la loro natura tribale in un contesto sociale contemporaneo. Morris ha esaminato i rituali e i simboli che circondano il calcio, come l’inno della squadra, i colori della maglia e le celebrazioni dopo i gol. Questi elementi giocano un ruolo fondamentale nel consolidare l’identità di squadra e nell’incanalare l’energia emotiva dei tifosi durante le partite. Nella sua analisi si è inoltre occupato anche della scarica emotiva legata al fenomeno calcistico.

Secondo lui, il calcio offre un’opportunità sociale e culturale per liberare tensioni e aggressività in modo controllato e regolamentato. Le emozioni forti e le reazioni dei tifosi durante una partita possono essere interpretate come una valvola di sfogo per le frustrazioni quotidiane. Morris ha anche suggerito che il calcio potrebbe avere radici ancestrali nell’imitazione del combattimento, dove le squadre si sfidano per la vittoria. Questa teoria collega il gioco del calcio alle origini storiche delle competizioni tra gruppi umani. Un’altra teoria di Morris riguarda il ruolo del calcio nell’incoraggiare l’identificazione nazionale e il senso di orgoglio per il proprio paese. I grandi eventi calcistici internazionali come la Coppa del Mondo possono catalizzare un sentimento di appartenenza e patriottismo.

Anche se il lavoro di Morris appare in gran parte legato al tentativo di spiegazione di certi comportamenti violenti e aberranti di alcune tifoserie (quelle inglesi in primo piano), “La tribù del calcio” è diventato un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si sia poi occupato del valore sociale del gioco del calcio. Come detto, Morris mette a confronto i comportamenti, i riti, le mitologie del football con quelle tribali. A suo parere, gli individui umani, nel lungo cammino dell’evoluzione, si sono trasformati da “cacciatori” a “calciatori”, passando attraverso attività sempre meno sanguinarie.

Oggi i calciatori sono i nuovi gladiatori e, in quanto tali, in ogni caso, eccitano il livello emozionale primordiale e ancestrale della folla. Non cambia però, per Morris, il significato di caccia rituale, in cui l’arma è la palla e la preda è la porta. La folla della Curva non è un branco disorganizzato, ma un gruppo ben strutturato, i cui membri si riconoscono fra loro attraverso la comunicazione simbolica espressa dai loro abiti, dalle bandiere, dai cori, dalle liturgie, che, in una sorta di rito collettivo, sanciscono e rafforzano l’identità del branco dei tifosi.

Ovviamente, Morris si riferisce, in genere, a quella parte della tifoseria che vive senza orizzonti di senso, nell’emarginazione sociale, per cui essi necessitano di una riaggregazione sociale, data proprio dall’appartenenza ad un gruppo sportivo, a dei colori specifici, e che lo fa per mezzo del calcio. Un gioco che è uno sport, uno sport che è una passione, una passione che è una fede. E come tale non ha nulla di razionale ma tende ad impadronirsi delle persone con i tempi, le modalità e le forme più impensabili.

PS: A proposito: buon campionato!


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