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Lady Diana in chiave pop vista e disegnata da AlexSandro Palombo

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C’era una volta un drago da salvare, un principe malvagio e una principessa in jeans: manuale di riscrittura delle fiabe, capitolo uno.

Di questo manuale AlexSandro Palombo ha già scritto ben più di un capitolo, grazie alla sua campagna di sensibilizzazione alla bulimia lanciata proprio in questi giorni. La principessa simbolo di questa iniziativa è Lady Diana, raffigurata in versione cartoon in diverse opere dell’artista diffuse in tutta Milano.

AlexSandro Palombo, artista e attivista, aveva già intrapreso un progetto artistico così sovversivo nel 2014, ridisegnando le principesse Disney e “rendendole” disabili, per gettare una luce sugli stereotipi fisici con cui vengono realizzate le principesse delle fiabe e facendo della propria opera un messaggio di inclusività e di celebrazione della diversità.

A sette anni di distanza, Palombo affina le matite per rivisitare in chiave pop un’altra principessa, una di quelle che non si scordano facilmente e che è stata ed è tuttora per molti un faro d’ispirazione: Lady Diana.

Tra le opere più rappresentative di Palombo viste in questi giorni, una in particolare sta facendo il giro del web e non solo: quella che vede la principessa Diana ritratta con un pennello in mano e circondata da soavi animaletti tipici dei cartoni animati, quelli che solitamente circondano la principessa di turno: coniglietti, uccellini, scoiattoli.

L’atmosfera fiabesca, accentuata dai grandi occhi azzurri di Diana e dai suoi splendenti capelli biondi, stride immediatamente con l’ombra che Diana stringe al braccio, facilmente individuabile nella sagoma del principe Carlo d’Inghilterra, completamente nera e con la scritta sul petto: “il principe azzurro non esiste”. Della vita di Diana Spencer si è detto molto e su molto ci si è soffermati: lei per prima aveva sofferto di bulimia e disturbi del comportamento alimentare. Un palazzo troppo grande in cui condurre una vita normale, ma troppo piccolo per i suoi sogni di donna e attivista attenta al prossimo; un amore, quello con Carlo, preda delle circostanze a dispetto del matrimonio da favola celebrato in quel 29 luglio del 1981, ciliegina su una romantica torta fatta di sguardi complici e sette metri di velo della bellissima sposa.

Che Carlo, però, avesse un’idea tutta sua dell’amore lo testimoniano due indimenticabili dettagli: Camilla Parker Bowles, l’amante che divenne sua moglie nel 2005 che sedeva tra gli invitati e la sua proposta di matrimonio a Diana, rimasta nella storia come quella meno romantica di sempre: “Vuoi sposarmi?” le chiese, senza le sognanti formalità che un rito del genere solitamente comporta (anche tra comuni mortali). “Ti amo”, le disse poi, dopo che Diana ebbe pronunciato quel fatidico sì, “ti amo, qualunque cosa la parola “amore” stia a significare”.

Difficile negare che “amore”, di questi tempi, sia di gran lunga la parola più abusata. Dietro questo termine si nascondono sempre più spesso violenze, scuse, tragedie, mistificazioni, inganni. Ben lontano dall’omnia vincit amor et nos cedamus amori di Virgilio, ancor più distante dall’odi et amo Catulliano, impregnato di invincibile sentimento nonostante le ferite inferte, l’amore è scivolato via dalle canoniche definizioni per andare a confondersi con sentimenti che nulla hanno a che fare con esso, ma che quotidianamente ci viene quasi imposto di accettare come suoi sinonimi.

“Il principe azzurro non esiste”, scrive Palombo, perché nelle fiabe non rappresenta altro che la proiezione della realizzazione della principessa, il solo mezzo attraverso il quale, nonostante le mille difficoltà affrontate nella fiaba, la ragazza si realizza, si emancipa, diventa qualcuno: diviene corporea soltanto accanto a un uomo.

Così accade per Ariel, ad esempio, sirenetta che rinuncia al mare e alle proprie pinne per amore. Possiamo davvero dire che abbia soltanto cambiato mezzo di trasporto per il proprio corpo? Che abbia semplicemente cambiato habitat quando, nei fatti, ha rinunciato alla propria natura per adeguarsi a quella di qualcun altro?

Finora il principe azzurro è esistito nel coraggio che, come da copione, competeva solo agli uomini, perché la gonna ampia delle principesse ingombrava troppo perché anche loro potessero correre e combattere per le proprie vite; è esistito nel padre chiamato “mammo” e non “papà”, perché badare ai figli è una cosa da donne. Il principe azzurro è esistito nelle discriminazioni sul lavoro, nei colloqui alle donne improntati su domande vincolanti come “ha un compagno? Vorrà dei figli?”, è esistito in tutto quello che ha rappresentato un ostacolo all’autonomia della donna, perché contemporaneamente impersonava la sola via di realizzazione in cui ella potesse sperare.

Principe azzurro come escamotage, come scusa, come piano B o semplicemente illusione, come slavato lieto fine di una storia ripetuta e tramandata già troppe volte. Una figura inventata che ha finito col diventare la stampella emotiva delle principesse, e non il compagno di vita con cui condividere esperienze da pari a pari. La verità è che quando una tavolozza è piena di colori, è facile notare come l’azzurro sia la tonalità più trascurabile di tutte.


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