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Pier Paolo Pasolini

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Ha la faccia di Massimo Ranieri il centenario di letteratura e popolo di PPP. Nel viaggio superficiale dell’affastellare volti, contesti e parole, s’impone l’unicità del canone dove tutto si tiene, quello del luogo comune di pop e fraintendimento, l’avverso destino – insomma – in cui è incappato Pier Paolo Pasolini.

Diventato perfino un intercalare nella programmazione di RaiRadio3, dove – all’improvviso – è sempre un “come direbbe Pasolini”, “come scriverebbe Pasolini”, “come filmerebbe Pasolini”, il più reazionario tra gli intellettuali d’Italia, nella percezione dei saputi, e nel sentimento diffuso, si ritrova a essere una caricatura dell’impegno, una sorta di amuleto per le professoresse col cerchietto devote al dogma del progresso di “dea sinisteritas”. Le bacheche di Facebook, per dirla con Alessandro Gnocchi, straripano dei suoi versi e di sue citazioni.

E invece, tutto il contrario. Un universo, quello di PPP, di miracoli e fiaschi di vino. L’usignolo friulano di “Difendi, conserva, prega”. Ecco chi è. Contro l’estremo slogan del principio nuovo, della parola nuova, per alimentare le masse.

È appunto Ranieri ad assomigliare a Pier Paolo Pasolini, e non viceversa. Il marchio di origine – il proletario in giacca e cravatta – è lui. Lui è il dio nelle fattezze dello straniero, del “diverso” a essere più precisi. Con tutto il rispetto per Dacia Maraini e per il profluvio di carta da centenario, l’unico libro su Pasolini che merita di essere letto, è “PPP, le Piccole Patrie di Pasolini” – un saggio di Alessandro Gnocchi, edito da La Nave di Teseo – dove ci sono tutti i giorni incantati del vivere sconosciuto.

Non conosce speranza, il futuro. Così nel groviglio dell’opera totale di PPP. È un incamminarsi nell’angoscia di massificazione e depauperazione.

Lo si scorge tra le ombre di Matera dove, in cerca di Cristo, gira il suo film più carnale o nel fosso di “Teorema” dove Silvana Mangano vi arriva per far l’amore. Fosse pure nel sottofondo di una litania contro le donne che si pitturano le unghie, quella coralità di popolo dello scrittore corsaro è poetica nel profondo di un romanticismo radicalmente impolitico.

Il suo calcio al pallone ripete – con la stampella di Enrico Toti – lo slancio di vita nel pieno della disfatta esistenziale, tutta di passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Le sue lucciole, infatti, non baluginano tra gli incastri dell’egemonia e nel parlare alla tomba – “Le Ceneri di Gramsci” – nel parlare al capo filosofico del comunismo italiano, dice: “attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta; la sua natura, non la sua / coscienza”.

Il mondo che se ne va, strugge di evidenze. Abbaia la campagna, si sa. Col viatico di Gnocchi – ottimo segnavia in quel romanzo sentimentale che è PPP – il canto tragico del poeta è sì catarsi ma nel chiarore. La speranza che Cristo scenda dalla croce per salvare l’autenticità dell’esistenza è già feconda gioia.

Il ragazzetto in uniforme ritratto in copertina – è la divisa della GIL, Gioventù italiana del Littorio – è lo stesso che nel passare degli anni diventa “l’emerito pervertito” cui un’infinità di carte giudiziarie lo certifica “imputato”.

Trentatré processi come stazioni di un calvario il cui esito, per PPP, è un exitu. Se ne ricavano gli occhi rossi a leggere la pagina 107 del libro di Gnocchi. Trova una chiavetta alla reception della pensione di Casarsa dove ha soggiornato per immergersi nelle Piccole Patrie. Un biglietto – a lui indirizzato, sapendolo in partenza – si raccomanda: “senza divulgarle, per favore”.

Ecco un brano dal libro di Gnocchi: “Ho con me solo un iPad. Dovrò aspettare. Salgo in macchina e arrivo a casa di notte. Infilo subito la chiavetta nel computer. Parte un video artigianale in bianco e nero, senza audio. Difficile dirlo se sia inedito. Non importa: certamente io non l’ho mai visto. È ipnotico. Dura circa quindici minuti. È Casarsa piena di gente, ovunque, per strada, sui balconi, alle finestre, nei portoni. Passa la bara dello scrittore Pier Paolo Pasolini, massacrato selvaggiamente in un campetto di calcio all’Idroscalo di Ostia. Adesso sono io ad avere gli occhi rossi”.

Quindici venti chilometri al più, ecco la misura delle Piccole Patrie.

Un’ora di pedalate a girarci intorno, a prendersi il cielo ad alzare il naso in aria, a avvistare un pallone in strada – o in piazza – e farne epica, come in una ricerca di realtà nell’illusione della verità.
Tanto più reale quanto più eretico, come quando la fede attraverso il dubbio scuote da sé ogni passività e diventa azione, personale reazione.

E dunque: “Difendi, conserva, prega”.


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