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Papa Francesco

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Bergoglio, papa Francesco e i suoi dieci anni di pontificato oltre le fratture moderne di fede e cultura, vangelo e vita, verità e storia, libertà e legami, giustizia e affetti…

Il papa è “servus servorum Dei” (=servo dei servi di Dio) perché porta sulla sue spalle – come la figura del buon pastore porta la sua pecorella- la “sollicitudo omnium ecclesiarum” (=la sollecitudine per tutte le chiese): egli è al servizio di tutti nell’annuncio del Vangelo. Come l’apostolo Pietro, conferma nella fede cristiana i fratelli, attestando per l’oggi “cosa è fede e cosa non lo è”.

Esiste, infatti, una tentazione persistente nell’esercizio della fede e una imbarazzante condizione del cattolicesimo odierno: quella di praticare una fede come adesione alla dottrina da credere (per altro poco conosciuta, per le note fatiche nel trasmetterla attraverso il catechismo) senza vivere quelle conseguenze esistenziali e storico-pratiche (dunque socio-politiche) che il cristianesimo comporta. La fede cristiana è senz’altro mistica, fondata sulla presenza dello Spirito santo nel cuore del credente: tuttavia – poiché nasce dall’evento dell’Incarnazione del Verbo, Gesù di Nazareth, persona storica vissuta duemila anni orsono, come Maestro in Galilea e profeta di un nuovo volto di Dio, solo e sempre amore-, è invivibile senza rischiarare con l’amore la “carne sofferente” degli esseri umani.

Il Figlio di Dio ha assunto “questa carne”, per riscattarla da ogni oppressione interiore ed esteriore, liberandola dalle smaniose e disumanizzanti voglie del potere e del dominio attraverso la violenza e dal narcisismo disumanizzante dell’autorealizzazione di sé in faccia alla sofferenza degli altri (ciò che normalmente si chiama “egoismo” o esaltazione del proprio io-ego o, ancora meglio, “egotismo”, con l’aggravante della prevalenza attenzionale al “me dell’io”).

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Questo cristianesimo mistico deve essere potentemente sociale, come ha sostenuto Henri De Lubac nel 1938 in Catholicisme, il cui sottotitolo è emblematico Gli aspetti sociali del dogma. Jorge Bergoglio, Papa Francesco, è stato molto legato a questo suo confratello gesuita, per altro contestato e discusso, come è quasi sempre capitato nella Chiesa cattolica per i pionieri del pensiero. Tanto più, memore dell’Enciclica Evangelii nuntiandi, nella quale Paolo VI denunciava il dramma odierno del cattolicesimo nella frattura tra vangelo e vita, tra verità e storia, papa Francesco si è impegnato a “confermare i credenti quanto alla fede testimoniale” insistendo su una ovvietà cristiana, stranamente smarrita: “ciò che il Vangelo ci insegna ha conseguenze sul nostro modo di pensare, di sentire e di vivere” (Laudato si’, n.216).

Nella lettera apostolica Misericordia et misera al n. 18 è ribadito il “valore sociale” della misericordia. Ricevere misericordia e offrire misericordia non si risolve in un fatto intimistico, perché comporta un “rimboccarsi le maniche per restituire dignità a milioni di persone che sono nostri fratelli e sorelle, chiamati con noi a costruire una città affidabile”.

Così, mentre Laudato si’ invoca una “conversione ecologica” attraverso una “spiritualità ecologica”, Fratelli tutti punta sulla proposta dell’amicizia sociale per una “fratellanza universale” tra popoli e nazioni, capace di fondare una vera civiltà dell’amore, attraverso la solidarietà e una “cultura della cura” su cui già Evangelii gaudium aveva istruito il mondo. Cura per l’altro, per chiunque altro, per il creato, per la famiglia (Amoris Laetitiae), per la città, cura per la pace, per la giustizia, in particolare cura per il sofferente, l’offeso e l’emarginato, per chi vive “nel rovescio della storia”, per gli umiliati e gli esclusi delle società del benessere, per i migranti e rifugiati.

Cura a tutto campo: è sicuramente molto sociale, è anche sovversivamente politico; è mondano e profano, ma è la via necessaria per la “cura più alta”, la cura di sé come essere umano. Perdere, infatti, la partecipante sensibilità al dolore e alla sofferenza dei fratelli è perdere la propria umanità, smarrire il senso umano del vivere e, dunque, la vera felicità, per la quale le persone sono state create “a immagine e somiglianza di Dio”, per gioire nell’amore.

È poi, inesorabilmente, “cura della fede”: “una fede autentica – che non è mai comoda e individualistica- implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra”. Perciò, c’è come la protesta rivolta a tutti i soggetti della società e della cultura a non trasformare il cattolicesimo in “religione civile”, a non pretendere che venga ghettizzata nelle sacrestie delle chiese: “nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimerci sugli avvenimenti che interessano i cittadini” (EG 183).

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Don Milani- sacerdote spesso citato da Francesco- ai suoi ragazzi: “I care, i care, c’è bisogno che io abbia cura di te, you care, you care c’è bisogno che tu abbia cura di me, i care, i care è solo un modo per dire che ‘amore ce n’è”. Se l’umanità dell’uomo risplende nell’amore – come tutti riconoscono, credenti e non- la questione resta sempre la stessa: “come deve essere l’Amore per essere come deve?” (P. A. Sequeri).

La risposta a questo interrogativo – “l’amore è quello mostrato da Gesù crocifisso ed è persona dell’amore nel cristiano”-, qualifica il carattere teologico del magistero di Francesco e smentisce la pretestuosità di quanti ci annoiano con le solite nenie, secondo le quali sarebbe troppo sbilanciato sul “sociale”, mentre un papa dovrebbe “parlare di Dio” e accertare la “dottrina su Dio”, per dichiarare le eresie continue di cui è pieno questo mondo perduto.

Si consideri però: dopo la barbarie del “secolo breve” nelle tante mostruosità prodotte dalle guerre mondiali, dentro l’attuale crisi umana di guerre ancora in atto sul pianeta terra, con il rischio non aleatorio della guerra nucleare – nei disastri della globalizzazione con l’allargamento di nuove sacche di povertà, che spinge milioni di esseri umani ad emigrare, senza dimenticare le sventure annunciate per i cambiamenti climatici e gli effetti distopici della realtà virtuale del multiverso-, cosa vorrà dire annunciare il Vangelo di Gesù e praticare una fede che, per essere davvero cristiana, è fides quae per charitatem operatur (fede che opera attraverso la carità)?

Per Evangelii gaudium, n.182: “Non si può affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra”. La fedeltà alla terra, dunque, nelle prospettive del Concilio Vaticano II, non si può contrapporre all’amore di Dio. Questo amore sconfinato- sintetizzato nel comandamento nuovo di Gesù (“Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi)- s’incarna in ogni situazione concreta dell’umano, dal personale al sociale, dall’ecologico al politico, dal religioso al mistico. È interiore e corporeo. L’incontro con Cristo, nell’accogliere il Vangelo, richiede una scelta di campo, senz’altro, ma anzitutto che “si scenda in campo”, secondo lo Spirito del buon samaritano.

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Poiché il Vangelo è la persona di Gesù, la rivelazione cristiana (dunque, l’annuncio del volto santo di Dio solo e sempre amore) non può patire una interpretazione intellettualistica, quasi fosse un insegnamento dottrinale. È l’evento dell’impatto “corpo a corpo” con il Logos di Dio, la Sapienza del Padre. La fede è ”sapienza”, è un sàpere, un sapere della vita, un gusto nuovo di esistere. La luce del Vangelo illumina tutti gli ambiti e tutti i tempi degli umani, con il suo giudizio di misericordia e di liberazione, di riscatto e di redenzione, realizzando nel credente quella giustizia cristiana che deve superare la giustizia degli scribi e farisei e corrispondere alla “ingiusta giustizia” di Cristo crocifisso che solidarizza con gli innocenti ed espia con i colpevoli, cioè muore salvificamente per tutti.

La “compassione” è, allora, dimensione vera del cristiano che “vede con gli occhi di Cristo” il dolore di chi soffre, è disponibile a fermarsi e a prendersi cura dell’altro, ad accompagnarsi con i bisognosi. Tutto questo- in un mondo dominato dalla tecnoscienza e da processi di individualizzazioni egoistiche e di disumanizzante di desolidarizzazione- appare come una “rivoluzione socio-politica” universale, se solo venisse presa sul serio.

Diventa anzitutto, “indignazione e denuncia”: perché, infatti, quel “compatire” espresso dalla voce verbale splanchnizomai, rimanda al dolore di chi riceve un pugno allo stomaco, è la compassione nelle viscere, la partecipante sofferenza al disagio di altri, come istanza che accomuna ogni uomo e, dunque, come tratto caratteristico dell’umano che è comune. Meno di questo, l’umano dell’uomo tende a perdersi fino a sparire. Perciò, l’avventura del Vangelo umanizza la vita e l’umanesimo cristiano sfida l’umanismo ateo sul campo dell’umano dell’uomo da salvare dalle sue forme barbare: a questo livello potrebbe generarsi una nuova santa alleanza tra credenti e non credenti o diversamente credenti, tutti convocati a stare sulla “via della salvezza dell’uomo e del suo habitat nella pace”.

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Il dialogo religioso, il dialogo ecumenico, il dialogo con i non credenti è tratto caratteristico dell’iniziativa pastorale di papa Francesco. È il dialogo concreto a tutto campo che mira all’umano concreto e denuncia discriminazioni e ostracismi, come nel caso delle persone in situazioni familiari irregolari o persone con tendenze omosessuali. È un dialogo non salottiero, orientato a dare risposte di vita, ad aprire orizzonti di esistenza buona e pacificata. Va fatto anche a costo di rischiare il fraintendimento e l’incomprensione. D’altra parte, il mistero della croce attraversa l’esperienza concreta del ministero di un vescovo, tanto più del vescovo di Roma che, presiedendo all’unità della Chiesa universale, è esposto a ogni critica, bersagliato da tutte le parti. E viene in mente quella canzone, bene nota: “sei bello ti tirano le pietre; se sei brutto ti tirano le pietre; qualunque cosa fai, sempre pietre in faccia prenderai”.

L’accanimento vandalico contro papa Francesco – così come è stato, per altri versi, contro Benedetto XVI fin quasi alla sua recente morte- ha del satanico: distruggere la persona del papa fa molto male alla chiesa e sarebbe il “colpo grosso” per i suoi nemici. Eppure Francesco perdona tutti e “fa silenzio”, insistendo sul dialogo come “un fare insieme”. Il conflitto deve essere trasformato in confronto e dischiudere all’incontro.

Ovviamente, ha ribadito al Convegno ecclesiale di Firenze: “Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria fetta della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti… la Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità”. E poi ancora: “ricordatevi che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà”.

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E come fare qualcosa “insieme”, essendo mondi culturalmente diversi e plurali, senza parlare e discutere? Non aveva prima detto che occorre confrontarsi e incontrarsi? Dialogare è “un logos che attraversa altri loghia”, parole che attraversano e dialettizzano con altre parole. E questo è il punto: il parlare e il discutere, divenuti un chiacchierare per chiacchierare.

D’altra parte anche M. Heidegger riconosce nella “chiacchiera” (Gerede) l’espressione della vita inautentica. Sarà necessario, dunque, nel dialogo, ridare al parlare il suo carattere “performante” che le è originario, corrispondendo così al potere creativo del parlare stesso di Dio. Gesù è la parola del Dio vivente, e, in quanto Parola, vive e realizza ciò che annuncia. La rivelazione cristiana si compie con “fatti e parole” (verbis gestisque) intrinsecamente connessi. Il parlare svuotato del suo significato operativo contraddice il cristianesimo. Anche su questo Il Vangelo getta la sua luce e offre il suo contributo umanizzante, non solo sui contenuti o i temi del dialogo, ma soprattutto sulle sue dimensioni spirituali e il suo stile, le sue modalità.

E non è questa vera “teologia” come sapienza di vita?
La teologia scientifica è giusto che faccia il proprio lavoro nel cuore stesso della Chiesa e della sua missione. La scienza teologica però – da sempre, e in particolare da San Tommaso che nella sua Summa ne ha giustificato lo statuto (aristotelico) di scienza-, non ha mancato mai d’essere sapienza. La ragione scientifica deve allargare i suoi confini nella direzione della sapienza, sosteneva Benedetto XVI, per non disumanizzarsi e impoverirsi nella superpotenza dell’algoritmo dell’intelligenza artificiale.

Anche in questo la teologia come scienza può dare il proprio contributo nell’attuale dibattito di “ripensare il pensiero”, anzitutto mostrando di essere un vero sapere critico in quanto sapere sapienziale. Da qui, la convinzione di Papa Francesco in Veritatis gaudium- in perfetta continuità con il suo predecessore- che è possibile la “transdisciplinarietà” dei saperi, nella quale la teologia riceve e dona a sua volta, nella prospettiva di una scienza dell’uomo aperta alla costruzione di società più giuste e libere, partecipative, ospitali e solidali.

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La teologia di Francesco è teologia popolare, perché è teologia sapienziale: altrove ho scritto che è “teopsia”, è la visione di Dio che umanizza la vita dell’uomo. Così, la fede è visione, lumen, luce. E qui non si può non ricordare il prima atto, davvero straordinario, di “sinodalità diacronica” compiuto da papa Francesco, nell’accogliere l’Enciclica già iniziata da Benedetto XVI nell’anno della fede, Lumen fidei: qui si trovano le basi (epistemologiche, per chi capisce il termine) di tante intuizioni teologiche poi sviluppate nelle future encicliche, soprattutto in Evangelii gaudium che rappresenta la vera riforma di Francesco: riforma negli stili di vita, nei linguaggi della comunicazione, nei tempi dell’evangelizzazione, a partire da quelle “metafore vive” (P. Ricoeur) che potranno dare futuro al cammino della chiesa e all’umanesimo cristiano, quale “Chiesa in uscita” e “Chiesa ospedale da campo”.

La comprensione teologica di queste immagini di Chiesa mostrerebbe non solo il contributo a una rinnovata evangelizzazione nelle nostre società globalizzate, ma anche una coraggiosa critica a certi idoli falsi (cioè visione distorte) della cultura postmoderna, poggiati su miti irrealistici: quale, solo per esempio, quella dell’esistenza dell’individuo e il progetto di un individuo sempre più automizzato, macchinico, postumano o “oltreumano”.

La Chiesa è “antropologia vissuta”. E dire che è “in uscita” significa che è realizzazione di un umano-persona: la persona e non l’individuo è realtà autentica. Persona è “relazione ad altri”, la cui identità coinvolge la dedizione di sé ad altri. “In uscita” è, dunque, sempre la persona umana che è “relazione amativa”.

Contro l’autoreferenzialità dell’individualismo narcisistico (=trasforma il mondo e gli altri in una specchiera entro cui guardarsi-“ipsarsi” per godere solo di sé e far godere solo sé), la conversione cristiana richiama all’uscita da se stessi per ritrovarsi negli altri: l’io nelle sue profondità è un Noi, “sé come altro” (P. Ricoeur). La libertà individuale non esiste, c’è invece quella personale che non può prescindere dai legami. Così il comandamento di Dio (anche i dieci comandamenti di Mosè) non “negano” la libertà della persona, ma ne attivano il motore che la fa camminare: “la mia libertà inizia quando comincia la libertà dell’altro” (è una rivoluzione copernicana).

La Chiesa, poi, come “ospedale da campo” indica il denominatore comune (l’universale concreto) dell’umano di ogni uomo e di ogni donna di questo mondo: la fragilità sofferente della condizione umana, cui corrisponde la “partecipante sensibilità al dolore di altri” (W. Kasper) quale dimensione costitutiva dell’umano. Esiste una Giustizia superiore, trascendentale, che appartiene alla struttura originaria della coscienza: è la sensibilità umana al senso umano che porta a generare/curare l’altro quale forma del manifestarsi della verità di sé.

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Questa Giustizia – inscritta nelle fibre più profonde di ogni uomo- rompe con la “giustizia” dell’esibizione di sé nella volontà di autorealizzazione, anche attraverso il “fare le opere buone” del cristiano. Qui, l’autocritica al cattolicesimo convenzionale è potente: può accadere, infatti, che -senza quella rottura- il credente si maschera nell’opera buona (per esempio: “dare i propri averi ai poveri”), però senza carità, senza l’attitudine a generare l’altro, ma solo nel desiderio di potenziare il proprio io, nell’immagine di sé offerta al mondo.

Per questa via, l’opzione per i poveri si trasforma in ideologia (EG n.199). Come è difficile -sosteneva Mazzolari- “far strada ai poveri senza farsi strada”! Ecco il problema: nelle società dell’ipermercato, dove domina il “narcisismo di massa”, quella Giustizia della propria giustizia non è “sentita”, non è più avvertita. Si è persa cioè la “sensibilità al senso umano” e quell’affezione originaria non appare più: perduto il senso del pudore non ci si vergogna della consapevolezza del nostro mascheramento, dunque della cura dell’immagine del nostro personaggio, piuttosto che del cuore della nostra persona.

Perciò nel suo annuale Messaggio quaresimale, papa Francesco parla della Quaresima quale tempo propizio (kairòs) non tanto per “giocherelli penitenziali” (i famosi “fioretti”), ma per esercizi spirituali di conversione radicale, per riacquistare la “sensibilità umana al senso”, praticando la Giustizia della vera giustizia, nominata ultimamente con la parola Amore. È l’amore della Giustizia mostrata nella Croce del Figlio, il quale con il suo amore sconfinato “mostra” (è fenomenologia pura) la Giustizia dell’amore. Qui, è infatti mostrato “come deve essere l’Amore per essere come deve” (P.A. Sequeri). Il resto è davvero “chiacchiera inutile”. Il cammino è aperto. “Camminando s’apre cammino” (A. Paoli) e per Evangelii gaudium d’altronde “il tempo è superiore allo spazio” (n. 222), cioè c’è sempre tempo per convertirsi, purché si ricordi anche che “la realtà è superiore all’idea” (EG 231 e 233), cioè la carità va agita e non solo proclamata a parole o sognata di notte.
Un testo di una canzone pop sul magistero di Papa Francesco – Questo Papa è un papà unico (cfr Youtube) – costruito sulla melodia di Mio fratello è un figlio unico, del cantautore crotonese Rino Gaetano, afferma tra l’altro che questo papa è unico “perché sa bene che s’è carne d’amore, una dottrina è una dottrina vera”, perché “lotta per la pace e un creato ospitale”, “perché è convinto che è una eresia abbandonare migranti, oppressi e scartati”, “perché è convinto che solo nel Vangelo di Cristo sta il segreto di una bella umanità”. E come non essere d’accordo.

A leggere le biografie di Francesco, si viene a sapere che ha studiato le opere di Romano Guardini, il filosofo cattolico della Katholische Weltanschauung (concezione cattolica del mondo) che ha influenzato il suo pensiero. Basti una citazione dell’opera del Guardini, L’essenza del cristianesimo, per capirlo. Nella conclusione afferma: “il cristianesimo è Egli stesso; ciò che per mezzo suo perviene agli uomini, e la relazione che per mezzo suo l’uomo può avere con Dio. Un contenuto dottrinale è cristiano in quanto viene dalla sua bocca. L’esistenza è cristiana in quanto il suo movimento è determinato da Lui. In tutto ciò che voglia essere cristiano, Egli deve essere compresente. La persona di Gesù Cristo, nella sua unicità storica e nella sua gloria eterna, è di per sé la categoria che determina l’essere, l’agire, e la teoria di ciò che è cristiano. Questo è un paradosso”.

*Vescovo
Presidente della Pontificia Accademia di Teologia


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