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Un sacerdote mentre dice messa

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Di ritorno da Lisbona, dove ha incontrato un milione e mezzo di giovani, riuniti per la Giornata mondiale della gioventù, papa Francesco ha risposto alle domande dei giornalisti con la solita semplicità. Ha avuto l’opportunità di riprendere anche la questione delle omelie “noiose e lunghe”, che stancano la gente durante le messe domenicali e, talvolta, spingono le persone a non frequentare più le chiese.

Del resto, il papa aveva “tagliato” alcuni discorsi in diversi appuntamenti: «Io quando parlo […] cerco la comunicazione. Anche nelle omelie accademiche faccio delle battute per controllare la comunicazione. Con i giovani, i discorsi erano lunghi e ho riassunto i punti essenziali del messaggio, l’idea fondamentale. Io facevo domande e l’eco mi aiutava. I giovani non hanno molto tempo di attenzione. Un’idea, un’immagine e un sentimento, ti possono seguire otto minuti. Nella Evangelii Gaudium ho scritto un lungo capitolo sulla omelia. Le omelie a volte sono una tortura. La Chiesa deve convertirsi in questo aspetto della omelia, breve, chiara, con un messaggio chiaro e affettuoso». La sottolineatura di “lungo” è mia.

Predica per non più di dieci minuti

È vero, nella Evangelii Gaudium si trova un lunghissimo capitolo dedicato all’omelia in una lunghissima esortazione apostolica dedicata all’annuncio del Vangelo nel mondo attuale. Evidentemente il Papa chiede omelie corte (e si sforza senza molta fatica, tanto gli viene di istinto, di dare testimonianza nel suo modo di proporre le omelie), non perché ce l’ha con la lunghezza dei testi. Ci sono ragioni obiettive di opportunità.

Da buon papà, conosce bene i suoi figli (specialmente i giovani). Ne ammira le capacità intellettuali e il potenziale di immaginazione creativa, ma sa bene in quale contesto culturale vivono: è l’ipermercato del consumismo globale che indebolisce l’attitudine critica del ragionamento riflessivo ed esaspera invece quella dell’emozionalismo, nutrendo per questa via gli affetti e i desideri (indotti ed eterodiretti dalla pubblicità). Sul potere del consumismo di svuotare le teste dei giovani, diseducandoli dalla consapevolezza critica, Pier Paolo Pasolini ha scritto delle pagine insuperabili negli Scritti corsari.

Questa condizione sembra impedire ai giovani un ascolto duraturo: la predica dovrebbe durare non più di dieci minuti. Oltre questi “pochi” minuti, non pare esserci più attenzione. La psicosociologia odierna conferma. E gli operatori del marketing, come anche i pubblicitari, lo sanno bene: messaggi semplici e istantanei, insistenti, ma brevissimi, dosati con puntualità. Mirati per colpire la fantasia. Quasi fossero piccolissimi “quanti di energia” capace dell’effetto tunnel, cioè di attraversare ogni barriera (critica e razionale), per penetrare nel profondo, nell’inconscio stesso, e poi emergere e motivare scelte solo apparentemente libere.

Imparare dalla scaltrezza dei figli

I predicatori avrebbero molto da imparare dalla “scaltrezza” dei figli di questo mondo nel loro modo di comunicare. E non è per nulla facile. Eppure qualche riferimento biblico ci sarebbe, come per esempio nel Siracide (32,8): «compendia il tuo discorso. Molte cose in poche parole». Perciò, Francesco ribadisce ai giornalisti quanto aveva scritto in Evangelii Gaudium: «una buona omelia, come mi diceva un vecchio maestro, deve contenere “un’idea, un sentimento, un’immagine”» (n.157). Un suggerimento che sintetizza tutta l’antropologia cristiana.

L’uomo è infatti corpo-anima-spirito e dunque: “sentimento fondamentale corporeo” (grazie al quale gli algoritmi delle macchine non diventeranno mai intelligenza umana, restando sempre “artificiale”, per quanto capace di elaborare pure “cosiddette” poesie e romanzi); intelligenza e intuito che vengono prima di ogni forma di razionalità critica, per cui l’idea corrisponde a qualcosa di molto più profondo, rispetto al ragionamento sillogistico; sensibilità spirituale e, pertanto, capacità simbolica, che accende immagini e “metafore vive” (Paul Ricoeur), attivando l’immaginazione, facoltà sempre più grande di ogni sapere (A. Einstein).

Dunque, “un’idea, un sentimento, un’immagine” è più che un suggerimento strategico. È una sorta di schematismo trascendentale: ricordate I. Kant! Interpreta le fibre intime della pasta umana, presente in chi parla e in chi ascolta. Qui ci si trova non tanto sul piano di un consiglio di retorica, quale arte del ben parlare, ma di “etica efficace”, con la proposta di un orientamento per parlare in modo incarnato e, dunque, “come si deve parlare” tra esseri umani. Tanto più nel cristianesimo, nell’esperienza di fede sorta nella storia dall’evento di Dio fatto carne.

È l’Incarnazione del Figlio di Dio a esigere che la parola non diventi mai chiacchiera o sfoggio retorico di cultura: sia piuttosto sapienza di vita, essendo come “lampada che guida i passi degli umani”, orientandoli al bene, alla giustizia, alla solidarietà, all’amore di Dio quale “pasqua” (cioè passaggio) alla custodia dei fratelli, soprattutto i poveri e i sofferenti, gli emarginati e gli scartati, i disorientati e immiseriti dalla violenza del potere degli affari.

In un mondo e nelle società moderne, nelle quali “il denaro è diventato il generatore simbolico di tutti i valori” e la forbice tra ricchi e poveri aumenta a dismisura, la predicazione cristiana deve “mettere in luce o in chiaro” la verità del volto di Dio, solo e sempre amore, come verità rivoluzionaria e dirompente. Nel cristianesimo, la verità è una persona – è Gesù stesso in persona- e anche l’amore è una persona – lo Spirito Santo, l’amore in persona o la persona dell’amore-, perciò la fede originata dalla Rivelazione cristiana è fides quae per charitatem operatur (fede che opera attraverso la carità).

Senza la carità è fede morta (cfr. San Giacomo). Si trasforma in credenza o, peggio, creduloneria incapace di “rendere ragione della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni” (1 Pt 3, 15-16). Qui infatti le spiegazioni non sono semplicemente “escursioni filosofiche” sui massimi sistemi, ma segni concreti che testimoniano l’amore, perché “solo l’amore è credibile” (Hans urs von Balthasar).

“Bistrattare l’omelia” per il bene della Chiesa

È l’amore operoso, in gesti corporei di carità verso i fratelli tutti, a essere il criterio con il quale giudicare il cristianesimo e le sue forme di trasmissione, in generale la predicazione cristiana e l’omelia in specie. Perciò “bistrattare l’omelia” dovrebbe far bene alla Chiesa, perché urge un discernimento sinodale (è qualcosa da fare insieme, perché la “verità è sinfonica”) a partire dal quale avviare una autocritica complessiva del cristianesimo moderno, e dunque della propria personale esperienza di fede e di Chiesa.

In un passaggio lirico di Juan Ramon Jimenez si dice a proposito del cristianesimo: Es verdad ya. Mas fue tan mentira que sigue siendo imposible siempre (Si, è vero, ma è stato cosi falso che continua ad essere incredibile). Si capisce cosa vuol dire. Tuttavia non attribuirei la falsità al “cristianesimo”, ma piuttosto a quelle forme di confessione religiosa (cattoliche o protestanti che siano), nelle quali il cristianesimo non è più riconoscibile.

Il cristianesimo – è bene precisarlo- è Gesù Cristo e tutta la storia di amore incarnato originatosi per il suo messaggio e per la sua grazia sacramentale nella lunga schiera dei santi (canonizzati o non), dove splende il volto santo di Dio nella custodia di fratelli amati fino all’effusione del sangue: qui la mentira, come tentazione del mondo, è sempre oltrepassata e vinta dalla verità che è nel gesto di un amore sconfinato fino alla morte. Non a caso l’omelia è dentro un atto liturgico: l’eucarestia del Signore che è il sacramento di questo amore infinito, crocifisso e gravido di risurrezione e di vita.

L’eucarestia è la Verità dell’amore di Gesù e dice la verità del cristianesimo che, per questo, non potrà mai essere falso. L’omelia deve convincere di questo e si propone come momento altamente sovversivo, nel quale “si mette in chiaro” la sapienza cristiana annunciata nelle Scritture sante, proclamate nella liturgia della Parola. Una omelia che dovesse uscire da questo indirizzo non sarebbe una buona omelia di sicuro, ma non sarebbe una vera omelia. Piuttosto qualcosa d’altro: un discorso di intrattenimento, magari anche esteticamente godibile (come quando si dice “ha fatto una bella omelia” e non si riesce nemmeno a dire cosa ti ha colpito, cosa ha toccato le fibre del cuore e ti ha commosso.

La ricerca di un nuovo linguaggio

Perciò, alcune battute sulle omelie cattoliche, per quanto ironiche e bistrattanti, aiutano a ritornare a trattare (fare il bis di trattazione) per venire a sapere cosa è un’omelia, cosa non deve essere, come si deve fare, come prepararsi bene. Il “lungo capitolo” di Evangelii Gaudium soddisfa abbondantemente questo compito di chiarificazione e si deve essere grati al Papa per questo, convertendosi a quelle indicazioni, perché sagge e promettenti per la comunicazione della fede, alla ricerca di un nuovo annuncio e di un nuovo linguaggio per predicare oggi secondo le esigenze incarnate del cristianesimo. Al n. 138, il papa non ha mezzi termini nella sua critica: «l’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle risorse mediatiche, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione».

E ancora: «E’ un genere peculiare, dal momento che si tratta di una predicazione dentro la cornice di una celebrazione liturgica». Proprio per questo, «deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione. Il predicatore può essere capace di tenere vivo l’interesse della gente per un’ora, ma così la sua parola diventa più importante della celebrazione della fede. Se l’omelia si prolunga troppo, danneggia due caratteristiche della celebrazione liturgica: l’armonia tra le sue parti e il suo ritmo». Niente show, dunque.

Più positivamente, si possono indicare alcuni strumenti utili per proporre un’omelia che sappia vincere l’inevitabile noia dei fedeli e diventi attraente e significativa per la vita, come imparare a parlare attraverso immagini, a usare le immagini nella predicazione: «A volte si utilizzano esempi per rendere più comprensibile qualcosa che si intende spiegare, però quegli esempi spesso si rivolgono solo al ragionamento; le immagini, invece, aiutano ad apprezzare ed accettare il messaggio che si vuole trasmettere. Un’immagine attraente fa sì che il messaggio venga sentito come qualcosa di familiare, vicino, possibile, legato alla propria vita. Un’immagine ben riuscita può portare a gustare il messaggio che si desidera trasmettere, risveglia un desiderio e motiva la volontà nella direzione del Vangelo» (EG n.157).

Osare il cambiamento

È una delle tante esemplificazioni possibili, ma è un via praticabile per trasformare anche il più distratto degli ascoltatori in un fedele che desidera ascoltare, perché sente quanto la sua vita viene interpretata dal predicatore e illuminata dalla Parola di Dio, incoraggiata a emulare, ad agire e a sentire con i sentimenti di Cristo nel quotidiano dell’esistenza.
Bisogna osare il cambiamento. È necessario agire per trasformare modalità e linguaggi. Diversamente, l’omelia resterà un “punto dolente” e le battute famose continueranno a confermare la loro ironia. Si pensi a quella dell’allora cardinale Joseph Ratzinger: «il miracolo della chiesa è sopravvivere ogni domenica a milioni di pessime omelie».

Gira anche quella simpaticissima del cardinale Tomas Spidlik: «il motivo per cui la chiesa ha posto il Credo dopo l’omelia è per invitarci a credere nonostante ciò che abbiamo ascoltato». È davvero così desolante la predicazione omiletica oggi come ieri se un acuto teologo quale Yves Congar ha scritto: «in Francia, nonostante oltre trentamila prediche ogni domenica, c’è ancora fede». Le battute si moltiplicano in progressione geometrica, si diffondono a macchia d’olio. L’omelia è, infatti, bistratta non tanto dall’osservatore critico, ma dal predicatore stesso, sempre più abituato a pensare che basti leggere un libro e prepararsi uno schema per fare una buona omelia.

La coscienza del predicatore lo sa bene, oltre ogni saccenza di chi, spesso anche senza mai aver meditato il Vangelo della domenica, propone una omelia “oracolare”, apre la bocca e parla, confidando magisticamente nell’aiuto dello Spirito santo. Peggio, quando uno si sente sicuro, perché ha il testo dell’omelia da leggere (magari scritto da altri e non interiorizzato o talvolta copiato da libri che alleviano la fatica della meditazione personale e comunitaria indispensabile). Che fare, dunque?

Ascoltare il cuore dell’uomo

Papa Francesco tiene in grande considerazione l’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI, nella quale si scrive in modo lapidario: «non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed onesto, quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltati e compresi. Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia» (n. 90). Così si evangelizza. È questo il metodo che vale anche per l’omelia.

A un popolo immerso nelle tenebre (Mt 4,16) è stata annunciata la buona notizia dell’Evento che libera da ogni schiavitù individuale, fisica e morale, collettiva e sociale: è l’annuncio cristiano del Dio vicino, del Dio amore, del Padre interessato alle vicende dell’umanità fino a condividerle personalmente, attraverso il gesto del Figlio suo crocifisso -che spinge l’amore fino al dono della sua vita- e attraverso l’effusione dell’Amore nei nostri cuori (Rm 5,5), lo Spirito che abita nell’uomo (Rm 8,9). Ancora Paolo VI nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi al n. 5 poteva affermare: «Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda».

A questo impegno di annuncio e di testimonianza della verità cristiana, come salvezza per il mondo, sono chiamati tutti i credenti, nessuno escluso. È un dovere missionario che nasce dalle profondità della stessa fede: la fede infatti confessa in Gesù di Nazareth il Figlio di Dio nella carne umana, il Signore e il Maestro – portatore di una nuova speranza per il futuro della storia e del mondo -, venuto a rivelare la volontà salvifica universale del Padre per tutti gli uomini.

La verità del Vangelo come “sfida d’amore”

Evangelii Gaudium vuole intenzionalmente corrispondere e collegarsi a questo alto magistero di Paolo VI sulla predicazione cristiana. Insiste sulla testimonianza della vita, per dare alle parole pronunciate nell’omelia quella potenza di penetrazione nel cuore dell’ascoltatore, per essere con-vincente: non si tratta di vincere la testardaggine o la durezza di comprendonio (che pure può esserci), ma di con-vincere della verità del Vangelo come “sfida d’amore” per umanizzare la propria esistenza, riempiendola di un significato bello (estetica), buono (etica) adorabile (contemplazione).

L’omelia, strettamente legate nell’atto liturgico dell’eucarestia alla Parola proclamata deve tener conto che quella Parola non è solo “parole”, ma è Rivelazione di Dio che si fa, come sostiene in Dei Verbum 2 con parole e fatti/le gesta di Dio, intrinsecamente congiunti, intrecciati (verbisgestisque). Il significato della Parola non è visibile semplicemente nella bellezza dei concetti e nella stringenza logica dei ragionamenti, ma mostra la sua gloria nella vita del popolo e del predicatore che agisce, seguendo il comandamento dell’amore di Gesù. Cosi: «L’omelia può essere realmente un’intensa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita» e «L’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un Pastore con il suo popolo» (EG n. 135).

Guardiamo all’esempio di Sant’Ambrogio nella conversione di Sant’Agostino. Egli mise in atto una autentica strategia comunicativa: “sospende le parole e fa parlare i fatti”, perché la trasmissione della fede accade attraverso la testimonianza della vita. Da questo principio scaturisce una educazione catechistica popolare nella quale la dottrina cristiana risulta capace di introdurre mistagogicamente nei misteri di Dio, anzitutto perché mostra come la luce di Dio penetra nella vita dell’uomo riempiendola di gioia e di speranza.

L’annuncio del Vangelo è la magna quaestio

L’omelia bis-trattata pone la questione decisiva: esiste questa catechesi mistagogica? C’è un popolo istruito e convertito da una evangelizzazione all’altezza del Vangelo di Gesù e dei segni dei tempi da interpretare? Esiste la conversione “cristiana” messa in campo dalla grazia di Dio che passa comunque attraverso i sacramenti della Chiesa cattolica? In altre parole: il popolo cattolico della domenica – perché è quello che riceve le omelie del predicatore- è rimasto “cristiano”? Cresce nell’esperienza vitale dello Spirito di Gesù? Vive in modo incarnato la fede, operosa nella carità?

Se è il cattolicesimo convenzionale a riempire le chiese, l’omelia – unica possibilità del pastore di parlare al suo popolo (altre non se ne vedono in giro) – non sarà sicuramente una panacea e nemmeno una reale possibilità di parlare alla gente. Anche se dura “dieci minuti” non verrà ascoltata lo stesso, perché il cattolicesimo convenzionale è una malattia (irreligiosa) dell’anima, quella che sta impedendo all’ottanta per cento dei cattolici domenicali di non ascoltare per niente la stessa Parola di Dio proclamata. E se non si ascolta Dio che parla nel sacramento, e si fa corporalmente vicino, perché si dovrebbe ascoltare l’omelia (noiosa o attraente che sia) di un prete?

Il vero grande punto dolente allora non è l’omelia. È l’evangelizzazione che si stenta a fare cristianamente. La receptio di Evangelii Gaudium nella sua integralità è allora decisiva. È infatti l’annuncio del Vangelo nel mondo di oggi la magna quaestio.

* Vescovo Presidente della Pontificia Accademia di Teologia


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