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Leonardo Sciascia

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IL RAPPORTO CON I PUGNALATORI DI PROFESSIONE
La mafia esiste. No, non esiste. Tutto è mafia, non c’è solo mafia

Quando ero una studentessa di Giurisprudenza, alcuni anni fa, mi appassionai alla Procedura penale. Volevo essere scrittrice e il processo era il più teatrale dei luoghi giuridici. Sul palco del processo, personaggi e drammi umani della più diversa natura si incontravano e capitava molto spesso che la verità rimanesse inconosciuta, come se non fosse quello il fine ultimo di tutta la dolorosa messinscena.

Sentii quello stesso smarrimento che provavano molte delle persone coinvolte nei procedimenti penali, convinte di essere lì per ristabilire una verità violata, ma che si ritrovavano a guardare ogni cosa attraverso un specchio infranto i cui frammenti rimandavano ognuno una propria parziale e personalissima verità. Fu allora che decisi di leggere Sciascia.

Leonardo Sciascia nacque a Racalmuto l’8 gennaio del 1921, se una malattia logorante non lo avesse portato via a 78 anni, festeggerebbe in questi giorni il suo centesimo compleanno. Scrittore prolifico, eterogeneo, notissimo in vita e in morte, fu inviso a tanti, a causa della fermezza delle sue opinioni e dell’impossibilità di inquadrarle nell’una o nell’altra corrente, che fosse politica, letteraria o sociale.

Di sé diceva: «Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità».

Man mano che lo leggevo, nelle pause dello studio, Sciascia mi insegnava questo: che lo scrittore, per usare una terminologia giuridica, è, prima di ogni cosa, un collaboratore di verità, “un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice.” Ricordo che, alla fine, scrissi al margine del libro di Procedura penale questa frase: non giudice né imputato ma testimone sempre.

Le sue parole, nel corso di tutta la sua vita e anche in seguito, furono contestate, travisate e strumentalizzate. Poche figure di intellettuali hanno attirato tanto odio e così radicato che tutt’oggi mi capita di imbattermi, nei commenti agli articoli che lo riguardano, in insulti feroci nei suoi confronti, sebbene i fatti e gli uomini per e contro cui si è battuto in vita siano stati ormai coperti dalla dimenticanza e dal passato.

L’eretico, come veniva chiamato allora, era ancora oggetto di condanna a distanza di decenni. “L’eresia di per sé è una grande cosa, – aveva scritto nel 1979 – e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. […] C’è sempre, nel potere che si costituisce in fanatismo, questa paura dell’eresia.”

Se il potere è ortodossia, l’intellettuale è naturalmente un eretico, in quanto non è capace di allinearsi alla narrazione imposta. E Sciascia sempre fu dalla parte opposta e contraria, in rigorosa, ostinata, ricerca della sola cosa che gli interessava davvero: la verità. Nei romanzi “gialli”, nell’Affaire Moro, in Todo modo, sostenne posizioni che lo fecero escludere da molti consessi che lo avevano in precedenza corteggiato, tirato dalla propria parte.

Di fronte alla sua figura mi viene allora da chiedermi: dove sono oggi gli eretici? Gli intellettuali che con il rogo delle convenzioni, degli schemi, degli allineamenti, dei luoghi comuni, illuminano le contraddizioni del potere? E dove si annida il potere stesso?

L’ultima raccolta Sciascia l’aveva intitolata: A futura memoria (se la memoria ha un futuro). Mi sento chiamata in causa anch’io, in quanto “futuro” depositario di quella memoria, come si sentono chiamati in causa gli uomini e le donne che oggi scrivono insulti allo scrittore sotto gli articoli che lo riguardano. Ripenso all’immagine della verità in frantumi di quando studiavo il processo e credo che i miei dubbi e la ferocia degli insulti dei commentatori di internet abbiano in fondo la stessa matrice e, per quanto diametralmente opposti, siano prodotti dalla stessa incertezza, figlia di questo tempo: la sfiducia nella verità.

Siamo nell’epoca delle post-verità, così è stata definita, nella quale imperano le credenze che fondendosi con altre cento, mille credenze simili si cementificano e simulano la durezza della verità. Oppure, al contrario, lo scetticismo incontrollato e non verificato squalifica talmente tante verità da non riuscire più a ricostruirne alcuna. Anche il potere ha imparato a non avere una Verità, ma a moltiplicarsi in tante quante sono le teste dei suoi seguaci. In questa mutazione del potere che non impone più la verità ma anzi la stigmatizza, anche essere eretici è diventato complicato, si rischia di essere scambiati per un adepto di una certezza che lotta contro altri adepti di differenti certezze, ognuno con la stessa legittimazione.

Qual è allora la differenza?

Nel 1977 Sciascia diceva che l’intellettuale è uno che esercita nella società “la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze possibili. La funzione, insomma, che l’intelligenza, unita a una somma di conoscenze e mossa – principalmente e insopprimibilmente – dall’amore della verità, gli consentono di svolgere.” Questi punti delineano una sorta di mappa per il futuro intellettuale eretico: fatti, intelligenza, conoscenze, verità.

Hanno detto di Sciascia che fosse eretico, scettico oltre ogni dire, profondamente pessimista. Nessuno però è riuscito mai a dire che fosse cinico. Quando sapeva di stare per morire indicò come suo epitaffio queste parole: ce ne ricorderemo, di questo pianeta.

Comprendo a questo punto anche l’ultima delle parole indicate da Sciascia nel suo breviario dell’eresia: amore. Non un amore sentimentale o erotico, ma un amore per l’essere umano che si declina nel più semplice dei significati: quello di tenere all’oggetto dell’amore.

E allora c’è un’ulteriore importante connotazione nell’eretico che va al rogo: che non lo fa solo e unicamente per la verità fine a se stessa. La necessità di quella verità non è mai slegata dall’amore per l’umanità, non solo quella presente ma intesa anche come posterità.

Sciascia ci teneva, ci ha sempre tenuto, alla verità e all’umanità. L’intellettuale eretico aveva come fari tre grandi valori: quello della verità (positiva), quello della giustizia (terrena) e quello della dignità dell’uomo, il cui rispetto è la più importante forma d’amore tra sconosciuti.

“Ritengo che rispettando il prossimo mio come me stesso (e magari di più), amando la verità, affrontando tutti i rischi che comporta il dirla, in definitiva io viva religiosamente”,

Leonardo Sciascia.


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