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Continua la guerra delle tariffe: retromarcia per Trump pronto a dialogare con Xi ma la Cina adesso si proietta verso l’Europa e aumenta i dazi su merci d’importazione americana
Il primo che chiama perde. Sembra questo il gioco a cui Stati Uniti e Cina si sono ridotti nel braccio di ferro mondiale che li sta contrapponendo da quando, il 2 aprile scorso, il presidente americano Donald Trump ha imposto a Pechino – insieme a numerosi altri Paesi – il pagamento di pesanti dazi commerciali. Secondo autorevoli fonti interne infatti, la Casa Bianca avrebbe contattato il governo cinese nella serata di giovedì, poco dopo aver imposto un rincaro del 145% dei propri dazi contro la Cina, con una doppia richiesta: da un lato, di non rispondere con nuove contro-misure e, dall’altro, di domandare l’organizzazione di una telefonata diretta tra Xi Jinping e Trump stesso.
Missione fallita, a quanto pare: ieri (11 aprile 2025) infatti gli americani si sono svegliati con la notizia di un nuovo contrattacco protezionista da parte cinese, che ha portato Pechino ad alzare al 125% i dazi sulle merci di importazione americana. L’escalation commerciale dunque è continuata, mandando nuovamente in subbuglio le borse e dimostrando anche che la parziale marcia indietro operata da Trump mercoledì scorso (quando ha temporaneamente abbassato i dazi al 10% per tutti i Paesi meno la Cina) non sia stata sufficiente per rassicurare i mercati. La consapevolezza che il motore dell’economia globalizzata sia rappresentato dall’asse sino-americano è troppo forte infatti per far sottovalutare i danni che il suo inceppamento comporterà per il commercio globale.
Il fatto che sia stata la stessa Casa Bianca a rivelare i contatti in corso con l’altra sponda del Pacifico segnala che probabilmente il governo americano, dopo la scottatura di mercoledì quando il caos in borsa e la perdita di valore del dollaro e dei titoli di Stato americano, è consapevole di questo problema e che stia cercando di convincere i cinesi a venire a un tavolo negoziale. Per rassicurare i circuiti finanziari, certo, ma anche per cantare vittoria nel più classico dei modi trumpiani, proclamando cioè che i propri metodi eterodossi siano gli unici possibili per raggiungere dei risultati (in questo caso indurre i cinesi a negoziare sui dazi). Anche per questo
Pechino non si muove. Anzi, le parole sprezzanti riservate dal ministero del Commercio cinese alla politica protezionista americana – «una barzelletta», l’ha definita la nota ufficiale con cui Pechino ha annunciato i suoi nuovi dazi – suona quasi come una risposta indiretta alla richiesta di contatto avanzata da parte statunitense. Della serie, l’approccio non è serio e il presunto negoziatore nemmeno, noi non ci fidiamo. Del resto, se le conversazioni riservate sono state svolte coi toni rivelati dalla Casa Bianca è facile capire perché siano state così poco ben accolte dalle parti di Pechino: secondo le fonti infatti, il governo americano avrebbe insistito sulla necessità di una telefonata da parte cinese affermando che gli Stati Uniti non compiranno il primo passo in una eventuale negoziazione.
Il motivo? La presente crisi sarebbe colpa cinese, dal momento che «è Pechino ad aver scelto la strada dell’escalation» rispondendo ai dazi americani con delle contro-tariffe di rappresaglia. Discorso irricevibile da parte cinese, che si troverebbe nell’assurda posizione di essere colpita dai dazi americani e di dover dopo avviare dei negoziati per risolvere la conseguente crisi commerciale su richiesta statunitense ma assumendosi la colpa della crisi stessa. Il carattere grottesco della vicenda è ben incarnato dall’immagine dei funzionari americani che chiamano la loro controparte cinese per chiedergli di chiamare loro.
Ma mentre la Casa Bianca aspettava invano che la cornetta squillasse, Xi Jinping faceva la sua mossa vedendo il premier spagnolo Pedro Sànchez in missione speciale in Estremo oriente e rivolgendo un appello chiaro all’Europa: «Cina e Unione europea devono difendere insieme il processo di globalizzazione economica e opporsi congiuntamente agli atti unilaterali di bullismo. Non ci sono vincitori nelle guerre tariffarie, andare contro il mondo porterà solo all’autoisolamento» ha detto infatti il presidente cinese. Del resto, la stessa rappresaglia tariffaria cinese conteneva un segnale al vecchio continente: Pechino infatti ha precisato che, dopo il rialzo al 125% dei propri dazi, non ne imporrà di nuovi, nemmeno se Trump dovesse a sua volta imporne altri in risposta a quelli cinesi.
La Cina ha motivato questa scelta con il ragionamento che ormai i dazi hanno raggiunto un livello tale, per quanto riguarda il danno inferto al commercio tra i due Paesi, da rendere superfluo ulteriori incrementi. Insomma, quando la maggior parte delle aziende sarà messa fuori mercato da un dazio superiore al 100% elevarlo al 200 o al 500% poco cambia. Tanto vale allora mandare un segnale ai propri partner, affinché vedano che Pechino non è interessata a un escalation, checché ne dicano gli americani.
Del resto, nell’ultima settimana l’Europa ha moltiplicato i segnali di dialogo con Pechino, dalla riapertura dei negoziati per la cancellazione dei dazi europei sulle auto elettriche cinesi alla delegazione di leader continentali che a luglio si recherà nella capitale cinese per un summit con i vertici della Repubblica popolare. La speranza resta trova una quadra per arginare l’instabilità economica mondiale, anche se da oltreoceano arriva già la notizia che Trump, nonostante l’aumento delle vendite dei titoli di Stato americani e le continue fibrillazioni in borsa, starebbe considerando di escludere le aziende cinesi dal listino azionario di Wall Street. Una mossa dal sapore autarchico che terremoterebbe di nuovo i mercati. In questa guerra strana fatta di tweet e futures, anche oggi si chiude aspettando domani.
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