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IL FASCINO discreto dell’elezione diretta del presidente del Consiglio è una suggestione, una delle grandi riforme, che accompagna la nostra storia repubblicana dal giorno dopo in cui i padri costituenti consegnarono al Paese la Carta. Qualcuno potrebbe dire anche dal giorno prima visto che quel passaggio e i successivi contenuti negli art.59, 88,92 e 94, gli stessi che ora si vogliono modificare con la proposta di riforma del governo Meloni, furono all’epoca ampiamente dibattuti e contrastati. Da allora ogni tentativo di revisione costituzionale è stato accompagnato dal timore che un leader scelto a suffragio universale e diretto potesse bypassare il Parlamento, assoggettarlo alla legge del Capo, disarmare la nostra giovane democrazia. E’ una paura ancestrale che ci siamo cuciti addosso e ci portiamo dietro dato il precedente del Ventennio, un rischio che legittimamente non vogliamo correre. Sarà anche per questo, per quel retaggio biologico e psicologico, che tutti i progetti di grandi riforme che toccano in qualche modo Palazzo Chigi si sono conclusi con un fallimento. Quando tutto sembrava scritto e sottoscritto dalle forze politiche qualcuno tradiva e l’accordo saltava. Una coazione a ripetere lo steso schema: una crudele maledizione contro le grandi riforme o una protezione celeste?

Il momento in cui si è andati più vicini per assurdo è stato proprio quello in cui le posizioni iniziali erano forse più distanti. Anno 1997, mese di gennaio, XIII legislatura. Massimo D’Alema, allora segretario del partito democratico della sinistra (Pds), primo presidente proveniente dal Pci, viene eletto presidente della Commissione bicamerale per le grandi riforme costituzionali (d’ora solo Bicamerale). Un gruppo scelto di 35 senatori e 35 deputati. Il momento è delicatissimo: siamo in pieno dopo-Tangentopoli. Silvio Berlusconi è già sceso in campo e fa largo uso delle sue metafore. I suoi uomini sono gli “azzurri”, il Milan spadroneggia in lungo e in largo attribuendogli la qualifica di vincente. Bettino Craxi ha trovato rifugio nella sua solitudine di Hammamet. Sull’Europa stanno per scatenarsi le guerre jugoslave che nei primi mesi del 1998 coinvolgeranno la Nato e dunque l’Italia e il suo governo di centrosinistra chiamato ad una partecipazione diretta. Letteralmente una prova del fuoco dopo “lo sgarro” di Sigonella, quando Craxi nell’ottobre del 1985 sfidò gli Usa e i suoi stessi alleati (il ministro della Difesa era Giovanni Spadolini, atlantista e filo-israeliano, quello degli Esteri Giulio Andreotti).

In questo quadro che sta per essere sconvolto e travolto dalla politica estera si inserisce il “patto della crostata” – espressione coniata da Francesco Cossiga – che poi sarebbe una sorta di patto del diavolo tra il “leader Maximo” e il suo alter-ego, il Cavaliere mostrificato dagli avversari. E’ in questo contesto improbabile che nasce la Bicamerale, il tentativo di unire due puntini separati da una distanza siderale, disarmare la realtà per trarne un beneficio personale. Vengono formati 4 comitati per definire le grandi riforme: 1) Forma di governo; 2) Forma di Stato; 3) Garanzie; 4) Parlamento e fonti normative. E succede quello che non t’aspetti: la missione impossibile diventa possibile.

Il Testo A proposto è una versione più spinta del disegno di legge 935 approdato il 23 novembre scorso nella 1° commissione Affari costituzionali del Senato, meglio noto come il Premierato. Per dire: l’art. 94 primo Comma prevede che entro 10 giorni dal giuramento il Primo ministro presenti alla Camera gli indirizzi programmatici del Governo ma già all’art.3 si enuncia che la Camera possa esprimere la sfiducia solo mediante una mozione che contenga la designazione di un nuovo presidente del Consiglio con votazione per appello nominale a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Siamo insomma molto vicini alla cosiddetta sfiducia costruttiva, una mezza blindatura del premier poiché la mozione per essere presentata deve essere sottoscritta da almeno un terzo dei componenti del Parlamento e non può messa in discussione prima che siano trascorsi 3 giorni dalla presentazione.

La scelta di ricorrere ad una Bicamerale, anziché varare come nei tempi attuali una proposta del governo, fu fatta per ricalcare lo spirito della Costituzione nata nel ’48. Almeno così si disse. Fu coinvolto il sistema dei partiti, l’intero arco parlamentare ad esclusione di quel Movimento sociale di Giorgio Almirante che rappresentava ancora l’eredità del fascismo. Per paradosso la prima firmataria del Ddl sul Premierato arriva da quel percorso così accidentato, dal post-fascismo sdoganato proprio da Berlusconi. Alla base di ogni proposta di modifica c’è il teorema della stabilità. L’idea che solo un presidente del Consiglio forte del consenso può affrontare i marosi della politica italiana. Ecco allora gli altri paletti che il segretario del Pds di allora e gli altri membri della Bicamerale vollero mettere per rafforzare la durata dei governi: per estendere il potere del premier il Parlamento doveva necessariamente concedere qualcosa. E dunque riduzione dei Parlamentari in un numero compreso tra 400/500 al posto dei 630 previsti e il Senato ridotto da 315 a 200 membri.

In quanto al Capo dello Stato è vero che avrebbe continuato a nominare il presidente del Consiglio, quest’ultimo nella bozza definitiva messa a punto 27 anni fa avrebbe avuto il potere di sciogliere le Camere. Che non è un potere da poco – ca va sens dire – e avrebbe ridimensionato il ruolo dell’inquilino del Quirinale che all’epoca si chiamava Oscar Luigi Scalfaro. La riunione decisiva si tenne la notte tra il 17 e il 18 giugno nella casa di Gianni Letta di via della Camilluccia. A termine della cena fu servita una crostata preparata con le sue mani dalla signora Maddalena, moglie di Letta. Il patto fu siglato e servito insieme al dolce ma avrebbe lasciato un gusto amaro in bocca ai commensali: il padrone di casa, D’Alema, Franco Marini e Gianfranco Fini. In cambio del semaforo verde la legge sulla regolamentazione delle frequenze televisive non sarebbe andata in porto e Mediaset non sarebbe stata costretta a vendere una sua rete.

Qualche tempo dopo con un colpo di teatro dei suoi il rettore di Arcore si sarebbe tirato indietro. Un dietrofront bollato come “inciucio” da tutti i principali commentatori. In ballo c’era anche allora il solito gioco dei pesi e contrappesi. Un equilibrio delicatissimo. Senza dire che la Bicamerale affrontò anche allora la prima conseguenza che una revisione di tale genere comporta: la modifica del sistema elettorale, questione rimasta finora sotto traccia che prima o poi però verrà a galla. Nel progetto varato dalla Bicamerale D’Alema il maggioritario a turno unico sarebbe stato sostituito da un sistema proporzionale a turno unico. Il testo definitivo fu completato e approvato nel novembre del 1997 al termine di una lunghissima maratona di audizioni. In commissione vennero presentati ben 42 mila emendamenti che giacciono tuttora e si possono consultare negli archivi del Transatlantico.

Si superarono turbolenze, moti di piazza, tensioni allo Zenit, dispute all’ultimo comma ma nel gennaio del 1998 la nuova architettura istituzionale disegnata dalla Bicamerale approdò in Aula. Nel frattempo però lo scenario era completamente cambiato al punto che quel progetto tessuto pazientemente si sciolse come neve al sole. Il Cavaliere sparigliò le carte e il Parlamento non votò mai quel provvedimento e l’eventuale referendum che ne sarebbe seguito. Non si era mai arrivati così vicini all’accordo. La maledizione delle grandi riforme aveva colpito ancora.


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