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Molte regioni sono in ritardo sui lavori programmati e questo fa slittare la sostituzione dei vecchi macchinari con i nuovi

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DUE anni in più di “sanità fatiscente”: è il conto da pagare per il ritardo di alcune Regioni che non avrebbero predisposto i lavori per sostituire le vecchie apparecchiature sanitarie con le nuove come previsto dal Pnrr. Ritardi anche su progettazione di ambienti adeguati, smaltimento e rottamazione, formazione del personale. Anche dal ritardo delle Regioni la scelta, nel luglio scorso, del ministro Raffaele Fitto di rivedere il piano sanitario del Pnrr, scelta dipesa dall’aumento indiscriminato dei costi delle materie prime ma anche dall’impossibilità di mettere a terra gli investimenti in tempo utile per l’acquisto dei nuovi macchinari ad alta tecnologia. Il piano di revisione di Fitto è stato approvato da Bruxelles a novembre. L’asticella dell’innovazione è stata spostata più avanti: Tac, ecografi e risonanze non arriveranno prima della deadline fissata dalla Ue per l’attuazione del Pnrr, il giugno del 2026, cioè con 2 anni di ritardo sul cronoprogramma previsto.

PNRR, REGIONI DEL SUD IN RITARDO

Una scelta che colpisce la sanità pubblica nazionale già messa a dura prova dal Covid. In particolare il Sud, dove molti ospedali si trascinano da sempre dietro l’aggettivo “fatiscente”. Ospedali che possono contare solo su vecchi macchinari retrò. Parliamo di aziende ospedaliere pubbliche che, per la vetustà delle loro apparecchiature, sono stabilmente in fondo alla classifica Agenas, (l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali). Se anziché valutare il livello di tutela della salute pubblica si trattasse di un campionato di calcio, queste aziende sarebbero già retrocesse in serie B. Sono: l’Azienda ospedaliera di Cagliari, Villa Sofia Cervello (Palermo), Cannizzaro (Catania); Civico e Benfratelli (Palermo), Papardo (Messina), Mater Domini (Catanzaro), Ospedali riuniti di Reggio Calabria, Sant’Anna e San Sebastiano (Caserta).

Non mancano, però, al Sud, eccellenze, come il Cardarelli di Napoli e l’Ospedale Riuniti di Foggia. Il Policlinico S. Matteo di Pavia, in cima ai 10 peggiori, è l’eccezione che conferma la regola. In alcuni casi l’acquisto dei nuovi macchinari avrebbe dovuto andare di pari passo con la progettazione dell’edilizia ospedaliera. I ritardi della prima hanno generato ricadute sull’acquisto dei secondi in un settore in cui l’innovazione e la qualità delle strumentazioni hanno un’importanza strategica. La missione sanità ha previsto uno stanziamento di 1,19 miliardi di euro per la sostituzione di ben 3.133 apparecchiature in uso già da oltre 5 anni. Gli ordini alla centrale acquisti Consip sono già stati predisposti dalle Regioni, i bandi sono partiti. Tutto pronto? No, perché molte aziende ospedaliere di diverse regioni – secondo fonti di Palazzo Chigi e del ministero della Salute – sono in ritardo per ultimare i lavori per ampliare i locali e renderli idonei a ospitare le nuove macchine per come previsto dallo stesso Pnrr.

SCHILLACI CONTRO IL RITARDO DELLE REGIONI

Ecografi, Tac e risonanze migliorano la qualità delle diagnosi. Gli esami, se appropriati e fatti in tempo, possono prevenire gravissime patologie. Disporre di apparecchiature di ultima generazione può fare la differenza, limitare i danni da smantellamento della medicina territoriale. Salvare vite umane, migliorare la qualità della vita. Senza dire che sostituire una macchina a bassa tecnologia con una nuova rappresenta per la nostra sanità pubblica indebitata una gigantesca opportunità: rinnovare un parco macchine ormai datato vuol dire ridurre i viaggi della speranza e la migrazione sanitaria, dimezzare in alcune strutture le liste d’attesa, non incorrere in diagnosi di tumore tardive.

Il problema è noto: un anno fa la Cgil denunciava che «l’89% delle strutture pubbliche utilizza macchinari che andrebbero sostituiti», e «che il 70% dei mammografi ha oltre 10 anni». Lo slittamento di due anni per la fornitura e messa in opera delle nuove apparecchiature è un altro duro colpo alla sanità pubblica che pure, non molti anni fa, era un nostro fiore all’occhiello. I sindacati – non solo i confederali – hanno denunciato nei mesi scorsi la mancanza di almeno 900mila addetti. Sfogliando le cronache locali si può constatare come in alcune regioni del centrosud per una mammografia si possono aspettare anche 720 giorni. Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, per ridurre le liste d’attesa ha messo in campo investimenti per 350 milioni di euro e non ha esitato a puntare il dito contro le Regioni per ritardi considerandoli «inaccettabili».

UN FAVORE AI PRIVATI

Ma la strada è tutta in salita: le apparecchiature da rottamare – secondo i dati di Confindustria – sarebbero infatti dieci volte superiori a quelle che, se tutto andrà bene, verranno sostituite tra due anni: 37 mila, il 92% dei mammografi e il 90% delle Tac, hanno più di 10 anni. Il finanziamento pubblico della sanità è da sempre oggetto di polemiche e al centro del dibattito pubblico. Rappresentata il 90% circa del bilancio delle Regioni. Enti che nella gestione della pandemia hanno dimostrato tutti i loro limiti e che pure invocano più autonomia per gestire anche altre funzioni, come per esempio l’istruzione. L’ultimo report della Corte dei conti, nel maggio dello scorso anno, ha fotografato uno stato di crisi profonda: 15 Regioni hanno chiuso i bilanci in rosso, 7 non hanno garantito i Lea (livelli essenziali delle prestazioni).

Nel 2022 l’Italia ha speso il 6,8% del Pil, collocandosi solo al 16° posto per spesa pro-capite tra gli Stati europei dell’Ocse: sotto la media europea, che nel 2020 è stata di 2.850 euro pro-capite. C’è infine un’ultima conseguenza, non del tutto secondaria, da considerare. Senza l’innovazione aumenta il gap tra sanità pubblica e privata, a tutto vantaggio della seconda. Un business che fa sempre più gola e genera sempre maggiori profitti. Ma questo è un altro discorso.


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