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Jesse Owens in una illustrazione di Roberto Melis

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ERA di sabato il 25 maggio 1935, giorno di San Gregorio VII, il Papa che “costrinse” l’imperatore, Enrico IV, ad “andare a Canossa”, scomunicato e pentito, inventando così anche un modo di dire: Enrico, scalzo e vestito solo di un saio, andò in quel comune del reggiano ed attese tre giorni prima che il pontefice lo ricevesse e perdonasse.

In quell’anno 1935, come in quasi tutti, accaddero cose straordinarie, simpatiche o nefaste: Hitler firmò le leggi razziali di Norimberga, entrò in commercio il gioco del Monopoli, la basilica di Santa Sofia a Istanbul venne sconsacrata, i signori con la macchina di Oklahoma City si trovarono alle prese con il primo parchimetro, le truppe italiane entrarono in Etiopia e le mogli italiane donarono la fede alla patria in una raccolta d’oro per finanziare quella guerra.

Il 25 maggio Jesse Owens stabilì in 45 minuti sei primati del mondo nell’atletica. Accadde in una città dello stato americano del Michigan chiamata Ann Arbor, per decisione dei due speculatori terrieri ed edilizi che l’avevano fondata nel 1824, John Allen ed Elisha Rumsey, speculatori ma romantici, in quanto dettero alla città quel nome dedicato ad Ann: ciascuno dei due aveva sposato una ragazza che Ann si chiamava, non la stessa.

Nello stadio universitario, il 25 maggio, si teneva il Big Ten Meet, una riunione di atletica, frequentata dalle più grandi università americane. Jesse Owens portava la canottiera della Ohio University. Jesse non si chiamava così, ma James Cleveland. Era nato in Alabama, a Oakville, nel 1913; era nero; a scuola da piccolo l’insegnante gli chiese come si chiamasse e lui rispose “Jaysi” cioè J. C: e la maestra capì Jesse e lo registrò come tale. E tale rimase per sempre.

Quella mattina si era svegliato con il mal di schiena, ricordo di una partita di football americano giocata qualche giorno prima con la squadra della sua università, che chiamavano i Buckeyes, gli ippocastani. Jesse era uno degli studenti: lo avevano visto sprintare e saltare in lungo da campione negli intervalli che gli concedeva il suo lavoro in una calzoleria dove lustrava scarpe e lo avevano ingaggiato grazie a un posto di lavoro garantito al padre.

Aveva 21 anni e 7 mesi, era alto 1,78 metri e pesava 71 chili. L’allenatore Larry Snyder gli disse di non gareggiare visto che non stava bene, ma Jesse lo pregò di fargli disputare almeno la prima di quelle prove che aveva in programma e per le quali si era qualificato alla vigilia. Era la finale delle 100 yarde e la partenza venne data alle ore 14.45. 9:4 il crono, record del mondo uguagliato. “Coach, non ho più dolore alla schiena”, sorrise Jesse all’indirizzo di Larry.

Ore 15.18, pedana del salto in lungo: la pedana è d’erba, un fazzoletto bianco messo a terra indica la misura di 7.92, il record del mondo in vigore, del giapponese Nambu. Jesse atterra più in là: 8,13. Sarà record del mondo per 25 anni. Owens non fece altri tentativi quel giorno: aveva altro da fare.

Ore 15.20: è la gara delle 220 yarde in rettilineo. Il tempo è di 20:3, primato del mondo. Di “passaggio” (allora valevano anche i crono fermati così) Jesse stabilisce il record dei 200 metri.

Ore 15.30, sono in programma le 220 yarde a ostacoli in rettilineo: Jesse passa gli ostacoli alti 76 centimetri e vince in 22:6, altro record, e di passaggio migliora anche quello dei 200 metri.

In tre quarti d’ora ha migliorato cinque record del mondo e uguagliato un sesto. Il 25 maggio 1935 diventerà, per lui e per l’atletica, “the day of the days”, il giorno dei giorni. Avrà altri “magic moments” il “lustrascarpe negro dell’Alabama”, in particolare l’anno dopo, ai Giochi Olimpici di Berlino 1936 quando vinse quattro medaglie d’oro (100 e 200 metri, staffetta 4×100 e salto in lungo) e dette inizio anche a due storie, una di “odio” e un’altra di amicizia, la prima molto narrata, la seconda realisticamente vissuta. La prima riguardò Jesse e Hitler.

Davvero il Fuhrer rifiutò di stringere la mano al “negro” che aveva sconfitto i suoi biondi ariani puri, come farebbero sospettare le scarsissime inquadrature che la regista di regime, Leni Riefenstahl, dedicò nel suo interminabile e magnifico film ufficiale, “Olympia”, al grande atleta americano? O è solo una fakenews generata da (graditi) disguidi protocollari?

Owens, anni dopo, raccontò di ritenere molto più razzista il comportamento del presidente americano Franklin Delano Roosevelt che, in piena campagna per la rielezione, non lo invitò con gli altri alla Casa Bianca per non inimicarsi, con l’inevitabile stretta di mano, l’elettorato bianco, o quello degli organizzatori della festa finale al Waldorf Astoria di New York dove, come nero, gli impedirono l’entrata dall’ingresso principale riservato ai bianchi e lo fecero salire con il montacarichi riservato ai fornitori.

L’amicizia che andò oltre la vita, la guerra, la morte e la pelle, riguardò il “lustrascarpe negro” e Lutz Long, l’ingegnere ariano e biondo di Lipsia e nacque sulla pedana del salto in lungo, dove i due si incrociarono da favoriti. Il giorno delle qualificazioni, che era anche quello della gara dei 200 metri, Jesse effettuò due tentativi nulli. Gliene restava soltanto uno. Lutz si avvicinò all’americano disperatamente seduto per terra.

I due si parlarono, non si sa in quale lingua se non in quella dello sport che, come la musica, è universale. Ha raccontato Jesse che Lutz gli fece capire che per evitare un altro nullo avrebbe dovuto prendere la rincorsa da un paio di metri più indietro. Lo fece e si qualificò. Il giorno dopo Owens vinse l’oro battendo Long.

I due uomini restarono in contatto. Lutz, soldato tedesco, scrisse un giorno a Jesse: “Se mi capitasse qualcosa, occupati di mio figlio”. Il temuto qualcosa gli capitò in Sicilia, durante lo sbarco alleato: fu allora che Lutz Long venne ucciso dagli americani. Owens mantenne la promessa: finanziò gli studi e il futuro dell’orfano di Long. Lutz è sepolto in un cimitero militare in Sicilia. Owens, per fare soldi, corse anche contro i cavalli.


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