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Michael Fred Phelps in una illustrazione di Roberto Melis

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Nessuno, né Debbie, né Whitney, né Hilary Phelps avrebbe scommesso un dollaro, nemmeno quello bucato, sul futuro natatorio di Michael, figlio della prima e fratello più piccolo di 5 e 7 anni delle seconde, che invece erano due ondine, specie Whitney che di lì a poco sarebbe arrivata a una medaglia mondiale, Roma 1994.

Michael Fred Phelps di Baltimora, nello stato unito del Maryland, classe 1985, in piscina andava volentieri, ma solo per accompagnare le due sorelle: quanto a tuffarsi, era tutto un altro paio di maniche. Poteva starsene ore a guardarle, ma niente acqua: frignava, scalciava come i muli. E quando finalmente ce lo buttarono, a sette anni, teneva testardamente la testa fuor d’acqua, sbatteva da tutte le parti, meno che da quelle giuste, i piedini che un giorno avrebbero raggiunto la misura di 48,5, e le braccia, che quello stesso giorno avrebbero raggiunto l’apertura alare di 198 centimetri.

Avrebbe imparato, invece, tutti gli stili. Alla fine di una carriera di cinque Olimpiadi, la prima a 15 anni a Sydney, il più giovane nuotatore americano dal 1932 (allora c’era stato Ralph Flanagan, tredicenne californiano di Los Alamitos), la quinta a Rio 2016, il primo nuotatore al mondo a vincere un oro a più di trent’anni, avrebbe collezionato grandi numeri e grandi trionfi. Cioè 29 medaglie olimpiche, un record, 23 d’oro, un altro record, 13 di queste individuali, ancora un record su di un totale di 16 (naturalmente record), 10 d’oro su 12 in staffetta, altri due record. Più, a proposito di primati, 39 record del mondo.

E, a proposito di mondiali, in campionati di questo tipo Michael Phelps, che veniva chiamato “Baltimora Kid” o “il proiettile di Baltimora” ha vinto 33 medaglie, 26 d’oro più spiccioli d’altro, mentre a conteggiare tutte le manifestazioni internazionali cui ha partecipato, le medaglie sarebbero 83, d’oro 66. Tutta questa frequenza sul podio gli veniva anche dalla considerazione che la produzione di acido lattico del suo fisico “bestiale” (altezza 193, chilogrammi 88, dalla cintola in giù 81 centimetri) era la metà di quella di un ragazzo qualunque, e questo gli consentiva recuperi più rapidi e molteplicità di gare in tempi brevi.

In più, questo corpo così ben predisposto per lo sport e per il nuoto, veniva incoraggiato e addestrato da 60 chilometri nuotati al giorno (talvolta 85) e nutrito da calorie che variavano fra le 8 e le 10 mila, il triplo dell’uomo qualunque. Per fare tutti quei chilometri le consumava fino all’ultima molecola.

A 7 anni un dottore gli diagnosticò la sindrome da deficienza di attenzione, a 12 l’allenatore che sarebbe diventato il suo per sempre, Bob Bowman, gli prescrisse “nuoto e basta” senza che si disperdesse in altre pratiche sportive. Si “disperse”, nel corso di quei 15 anni che seguirono, due o tre volte, facendo di quegli “errori di gioventù” che accadono più o meno in ogni vita, ma che a lui, essendo Phelps e dunque un “modello per i giovani” vennero perdonati a mala pena dai moralisti a tempo pieno, quelli di cui diceva Oscar Wilde “un uomo che moraleggia è un ipocrita, una donna che moraleggia è inevitabilmente brutta”.

Inciampò un paio di volte in guida in stato di ebbrezza, che non gli fece tener conto dei limiti di velocità e della segnaletica stradale, e un’altra volta in un fotografo che lo immortalò mentre utilizzava il bong, strumento da marijuana. Ne conseguirono multe, lavoro ai servizi sociali o semplicemente una “non convocazione morale per ammaestrare” che gli costò i mondiali di Kazan 2015, e dunque qualche medaglia.

A 15 anni e 9 mesi diventò il più giovane primatista mondiale di sempre nel nuoto, più giovane di Ian Thorpe che l’aveva fatto a 16 anni e 10 mesi. Don Talbot, allenatore australiano, disse che avrebbe voluto vivere fin quando Phelps avrebbe sconfitto Thorpedine: per sua fortuna il cielo non lo ascoltò, perché venne presto quella volta.

Anche se non fu nell’occasione più attesa, nella piscina di Atene 2004, dove si disputò la “gara del secolo”, i 200 stile libero che videro contro Ian e Michael che toccarono la piastra finale nell’ordine tra di loro, perché in mezzo si insinuò l’olandese Van den Hoogenband. Fu questa gara a far perdere a Baltimora Kid la sfida dell’oro: voleva vincerne sette come Spitz, “non ce la farà mai: è impossibile” disse Thorpe, e non ce la fece; si fermò “solo” a quota 6 per quella volta.

Furono 7, però, ai mondiali del 2007 a Melbourne, dove nuotò i 200 farfalla abbassando di un secondo e 62 il suo primato, una cosa che “vale il salto magico di Bob Beamon al Messico”, dissero gli esperti, quel volo da 8,90 metri rimasto inarrivato fino al 1991.

Ora c’era Pechino. Qui Phelps alzò ancora l’asticella: aveva collaudato a inizio dell’anno il costume in poliuretano della Speedo, quello che teneva a galla anche le pietre e rivoluzionò i crono di tutte le gare (alcuni primati di allora resistono ancora). Phelps l’aveva indossato in una scenografica presentazione che imitava l’Uomo Vitruviano di Leonardo, braccia e gambe divaricate, immagine della perfezione.

A Pechino Michael promise otto medaglie d’oro. Thorpe fu insistente: “Non ce la farà mai”. Bob Bowman fu “motivatore”: appiccicò l’articolo in cui Thorpe si sbilanciava dentro l’armadietto di Phelps, un monito quotidiano. “Siamo qui per suonargliele” disse il francese Bernard: fu un piffero di montagna, di quelli del proverbio, che andarono per suonare e furono suonati. Perché erano, quelli cinesi, i Giochi dell’Otto. Otto è il numero magico, il portafortuna oltre la Grande Muraglia: per stuzzicarlo, le Olimpiadi furono aperte il giorno 08-08-08 alle ore 08.08.08. E l’8 fu di Phelps, anche se ci fu la crisi del settimo oro, quando toccò la piastra dei 100 farfalla dopo Cavic ma mentre Cavic l’accarezzò lui fece pressione, e il crono tiene conto anche di una certa “violenza”.

A Londra, 4 anni dopo, altra vasca altre medaglie, Michael superò il record di sempre della Latynina. “Mi ritiro” disse, dandosi al poker e al golf: “Se andrò a Rio sarà sul green”: Ma con due anni, quattro mesi e quindici chili in più, si tuffò di nuovo: destinazione Rio. E anche qui medaglie, pure se una gliela tolse Schooling, un ragazzino di Singapore che teneva nel portafogli la foto scattata da bambino con il suo idolo. Il suo idolo era Michael Phelps: “Anche io sono un bambino, non voglio crescere, sono un bambino grande” sorrise Phelps.


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