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Uno dei tanti arrivi vincenti di "Bullet Bob"

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“Bullet Bob”, il proiettile Bob come veniva chiamato lo sprinter Robert Lee Hayes di Jacksonville, Florida, Stati Uniti d’America, perché al colpo di pistola del via il proiettile sulla pista era lui, se ne stava stanco e pensieroso sul suo letto nella stanza del Villaggio Olimpico a Tokyo, autunno 1964.

Era stanco perché aveva appena vinto la semifinale dei 100 metri, la gara delle gare ai Giochi. Aveva corso in 9.91! Il record del mondo, in quel momento, era di 10 secondi netti. Il suo tempo era dunque più che strepitoso anche se non era omologabile: il vento, nello Stadio Nazionale della capitale giapponese, lo aveva aiutato soffiandogli alle spalle a una velocità di 5,28 metri al secondo, mentre il massimo consentito era di 2 metri. Il crono non era statisticamente valido, ma la fatica non conosce le regole e dunque si faceva sentire ugualmente.

Era pensieroso perché di lì a qualche ora avrebbe dovuto correre la finale e vincere quell’oro che agli americani bruciava ancora d’aver visto interrotta una striscia che durava dal 1932, giacché a Roma ’60 erano stati sconfitti dal tedesco Armin Hary, un altro proiettile che sparava spesso ancor prima del colpo di pistola.

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E poi, si arrovellava Bob, gli era toccata pure la corsia numero uno che era un pastrocchio da impantanarcisi: la pista era ancora in terra battuta, era piovuto e pioveva, e il giorno prima erano passati di lì i marciatori; erano arrivati in 26 (vincitore un inglese, Kenneth Matthews di Birmingham) e con il loro “tacco e punta” avevano lasciato una palude melmosa. Invece, pensava Bob, Enrique e Harry hanno avuto la fortuna dalla loro parte: la corsia tre per il cubano Enrique Figuerola e la cinque per il canadese Harry Jerome, di lì i marciatori non erano passati.

C’è sempre qualcosa che mi gioca contro, pensava Bob, che si autocommiserava spesso; diceva di sé “sono un figlio della guerra”, alludendo sì all’anno di nascita, il 1942, ma anche al fatto che era nato figlio di un altro uomo che non era quello di cui portava il nome che ai tempi era impegnato al fronte, ma di una relazione extra di sua madre. La quale, ora, sarebbe stata in tribuna seduta vicino a Jesse Owens: i soldi per il viaggio li avevano raccolti con una colletta i cittadini di Jacksonville.

Poi ripensava a tutti quegli allenatori e quelle università che non avevano voluto saperne di lui; i primi dicevano “sì, corre velocissimo, ma in tutte le direzioni meno che verso il traguardo”, alludendo al fatto che era stato tirato su più come giocatore di football americano che non come velocista. Poi aveva incontrato Griffin, il coach che lo aveva fatto sprinter insegnandogli la direzione giusta: aveva vinto le ultime 54 gare disputate.

E del resto quella pratica del football gli era venuta in soccorso proprio in chiave Tokyo ’64. Era successo che, verso i pre Trials che si svolgevano a New York, Bob avesse subito uno strappo muscolare, e dunque non aveva potuto essere selezionato fra gli otto che avrebbero disputato al Coliseum di Los Angeles la corsa del giudizio finale. Questa volta i selezionatori americani fecero un’eccezione: tolsero il diritto di presenza all’ottavo di New York, Paul Drayton, e chiamarono Bullet Bob. Lui aveva qualche dubbio e qualche chilo di troppo, non aveva potuto prepararsi davvero, però accettò la sfida.

Stava per perderla già prima di affrontarla, chiuso nell’ascensore dell’albergo che si bloccò al momento di andare a prendere la navetta. Pesavano troppo, tutti insieme, lui, il mingherlino della compagnia, con i suoi 86 chili, Al Oerter, discobolo, con i suoi 127, Jay Sylvester, altro discobolo, con i suoi 114, e Dallas Long, pesista, con i suoi 118. Quasi mezza tonnellata di muscoli. Quando li liberarono e arrivarono nella hall, la navetta era già partita. Lo stadio era a pochi metri, Bob decise di andarci a piedi. E allora quelle schivate del football gli tornarono utili per farlo con le macchine del traffico di Los Angeles. Arrivò giusto in tempo, corse, vinse in 10.1, si prese il biglietto per Tokyo.

Avrebbe voluto liberarsi di questi ricordi, parlarne magari con il suo compagno di stanza al Villaggio, il lunghista Ralph Boston, ma quello dormiva sempre. Poi, d’improvviso, la porta della camera si aprì e occupò tutto il vano Smokin’ Joe: era Joe Frazier. Anche lui, il ragazzo della South Carolina destinato a divenire un epico rivale di Mohammed Alì (“Thrilla in Manila” il match indimenticabile) era lì per una rivincita e un ripescaggio. La rivincita era quella di riportare in America l’oro dei massimi che l’azzurro Franco De Piccoli aveva trattenuto in casa a Roma ’60; il ripescaggio si doveva al fatto che Frazier era stato sconfitto ai Trials da Buster Mathis, pugile del Mississippi, che però durante gli allenamenti successivi si era fratturato un pollice ed aveva dovuto rinunciare ai suoi Giochi. Joe era stato chiamato a sostituirlo.

“Qualcuno ha una chewing gum?” fece Smokin’ Joe appoggiato agli stipiti e senza aspettare la risposta si avvicinò al letto di Bob mimando un assalto da ring; “Cercala nel mio borsone”, disse Hayes, alzandosi dal letto e puntando dritto verso la doccia. Frazier rivolse le sue attenzioni al dormiglione Boston tirandogli quel che gli capitava sotto mano. Quando Bob tornò sgocciolante, c’era un po’ di confusione in giro; non ci badò molto; si infilò qualche indumento, chiuse il borsone, lo tirò su e s’avviò; Ralph riprese a russare.

Era in camera di chiamata, Bob, quando aprì il borsone e andò a pescare le scarpe da gara. Le scarpe? Ce n’era una soltanto: la sinistra. E adesso? Non poteva uscire, non poteva farsene portare un’altra: era disperato. Se ne accorse Tom Farrell, il mezzofondista di New York che era appena arrivato quinto negli 800 metri. S’informò, guardò i piedi di Bob che gli sembrarono piccoli rispetto a tutto il resto. “Che numero porti?” gli fece; “Taglia 8” fece Hayes piagnucolando (è il 41 europeo); “Come me” sorrise Tom, mentre si sfilava la destra e la offriva a Bob; che la prese, se la infilò ed andò verso la gara. Partì “sparato” da quel Bullet Bob che era e vinse l’oro: 10 secondi netti.

Qualche giorno dopo Hayes era di nuovo in pista per la staffetta. Il coach si raccomandò di una sola cosa con Paul Drayton, Gerry Ashworth e Dick Stebbins, i primi tre frazionisti americani: “Preoccupatevi solo di dare il testimone a Bob”. Lo fecero. Hayes lo prese in mano che era quinto, corse i suoi 100 in 8.6 secondi come mai nessuno fin lì (e dopo solo un certo Usain Bolt) e arrivò primo.

Fu anche la sua ultima gara di atletica. Prima ancora di prendere il volo di ritorno negli Stati Uniti aveva firmato un contratto da professionista del football americano per i Dallas Cowboys: andò a vincere anche il Superbowl, un unicum di due miti, Olimpiadi e Superbowl, che solo lui è riuscito a realizzare. Accumulò dollari (che sperperò), steroidi, cocaina, alcool e alla fine, povero, triste e solo, un cancro al fegato se lo portò via a meno di sessant’anni. A Smokin’ Joe, dopo che aveva ritrovato la scarpa perduta sotto lo scendiletto di Ralph Boston, disse solo: “Non mettere mai più le mani nel mio borsone”.


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