X
<
>

Hakeem Abdul Olajuwon

Condividi:
6 minuti per la lettura

Hakeem Abdul Olajuwon, l’uomo del dream shake

Era il 19 giugno. Era il giorno che celebrava secondo il Calendario dei Santi, un giovane chierico ferrarese dal nome ironicamente evocativo in quell’anno speciale, in un luogo speciale, per un evento speciale: si chiamava Buonmercato. L’anno era il 1984, il famoso “Nineteen eighty-four” che George Orwell tanti anni prima (1949) aveva immaginato e raccontato, inventando anche il Grande Fratello (niente a che vedere con il trash omonimo del Terzo Millennio).

Il luogo era il Madison Square Garden di New York, dove Marilyn vestita di niente aveva sussurrato “happy birthday” al presidente Kennedy, Mohammed Ali aveva incrociato i guantoni con Joe Frazier (e Nino Benvemuti con Griffith) e John Lennon aveva tenuto il suo ultimo concerto. Il mondo del basket conosce quel luogo semplicemente come “The Mecca”.

E proprio al basket e al “mercato” si riferisce l’evento del 1984, l’anno in cui David Stern, avvocato di New York, rilanciò l’Nba in crisi morale (molti giocatori sotto inchiesta per droga: Stern introdusse i test antidroga, niente a che vedere con il doping), economica (i giocatori costavano troppo: Stern introdusse il salary cap, cioè il tetto salariale) e televisiva (la CBS trasmise una delle partite di finali in differita per mancanza di audience!). L’evento spettacolarizzato fu il draft, cioè la scelta, da parte delle società professionistiche, le cosiddette franchigie, dei giocatori, soprattutto provenienti dal college.

SCOPRI I RITRATTI DI PIERO MEI

La coincidenza fu straordinaria, il mercato non fu buono ma ottimo, giacché al primo dei 10 giri previsti per la scelta fra i 228 ragazzi selezionati, Houston, che aveva sorteggiato lo “jus primae noctis” indicò Hakeem Olajuwon; Portland, secondo a scegliere, puntò sul cavallo sbagliato, prendendosi lo sfortunato Sam Bowie che avrebbe avuto una carriera più di infortuni che di fortune, e lasciò il terzo accessit a Chicago che legò il proprio nome e i propri successi a Michael Jordan, il prossimo Air Jordan.

Fu, a giudizio degli esperti, il draft migliore di sempre: oltre Olajuwon e Jordan, infatti, erano sul palco altri cinque ragazzi che poi furono nell’All Star, Charles Barkley (quinto, per Philadelphia), Alvin Robertson (settimo, per San Antonio), Otis Thorpe (nono, per Kansas City). Kevin Wills (undicesimo, per Atlanta) e John Stockton (sedicesimo, per Utah). Quattro di loro, Jordan, Olajuwon, Barkley e Stockton sarebbero entrati tra “i migliori cinquanta del cinquantenario”. Chicago, nota a margine, selezionando un giocatore ogni giro, scelse al decimo round, al numero 208 totale, un altro ragazzo: si chiamava Frederick Carlton Lewis, Carl o “il figlio del vento” per tutti. Non giocò neppure un minuto nell’Nba ma era già campione del mondo nello sprint e nel salto in lungo in atletica leggera e dal draft a poco avrebbe conquistato l’America alle Olimpiadi dimezzate di Los Angeles 1984.

Lewis, che era del 1961, aveva due anni più di Olajuwon, statunitense da cinque dopo la sua migrazione da adolescente a Houston, nel Texas, dove arrivato per giocare a basket e studiare all’università, dalla natia Lagos, che a quei tempi (lo fu fino al 1991) era la capitale dello stato africano della Nigeria.

Akeem fu registrato senza l’H iniziale: la aggiunse nel 1991 per essere identificato come più americano, secondo il metodo che aveva “storpiato” molti dei nomi e cognomi degli immigrati negli Stati Uniti: il nuotatore Tarzan, Johnny Weissmuller, rumeno e tedesco, aveva trasformato in Johnny il natale Janos, e in una doppia esse la originaria grafia della Esszet; Andrew Warhola tra lo slovacco e il polacco diventò Andy Warhol e Rocco Marchegiano, cognome da Ripa Teatina, provincia di Chieti, si fece Rocky Marciano, per non citare che tre “celebrities”.

L’allora Akeem apparteneva, come etnia, al popolo Yoruba, lo stesso dell’altro cestista Giannis Antetokounmpo, “The Greak Freak”, il mostro greco, il pugile Anthony Joshua, lo sprinter Asafa Powell, e, per uscire dai campi sportivi, Wole Soyinka, Nobel per la letteratura nell’86. Il ragazzo cresceva con due passioni e tanti centimetri e chili: le passioni erano lo studio e lo sport, centimetri e chili, a operazione completata, furono 213 e 116 rispettivamente. Lo sport preferito era il calcio, il ruolo quello del portiere che avrebbe affinato (e poi la faccenda tornò a suo vantaggio) le doti naturali di agilità e di “bloccaggio” del pallone con le mani. A scuola scoprì un’altra disciplina sportiva che lo conquistò: la pallamano.

Accadde in una stagione, quella dei suoi 15 anni, che il college nei campionati studenteschi, si qualificò per le finali sia nella pallamano che nel basket. I tecnici chiesero ad Akeem Olajuwon, alto com’era, di aiutare in entrambi i tornei e chiesero all’adoloscente di “sacrificarsi” ed all’organizzazione di fare un’eccezione e di consentire la partecipazione ad entrambi i tornei. Il college li vinse. Olaujuwon fu notato da un coach americano e gli fu fatta un’offerta: proponiti negli Stati Uniti, vai a studiare ed a giocare lì. Olaujuwon accettò, più con l’idea dello studio che non con quella del basket. Il contatto americano lo portò a Houston, nel Texas.

Quando arrivò quasi sbagliò destinazione confondendo Houston con Austin Ma il tazista, che era nigeriano come lui, capì l’equivoco e lo portò al posto giusto. Fu lì che crebbe come cestista, protagonista di tante “doppie doppie” (punti e rimbalzi a due cifre) ed arrivò al draft del giugno 1984. Era tranquillo: Houston o Portland avrebbero avuto la prima scelta, quindi sarebbe rimasto a casa, prima opzione, oppure avrebbe raggiunto l’amico Clyde Drexler, Clyde The Glide, l’Aliante, il ragazzo di New Orleans con cui aveva giocato nel college. La scelta fu di Houston: restava a casa e ci restò per 17 stagioni, 1177 partite, 26.511 punti, prima di chiudere la carriera con Toronto. Da “Rocket” vinse due titoli in quegli anni nei quali Michael Jordan lasciò il basket, ma poi tornò…, fu miglior giocatore, miglior rimbalzista, miglior tutto.

Lo chiamarono “The Dream” e il suo gesto preferito da lui, mica dagli avversari lo chiamarono “Dream Shake”. Hakeem, che dal 1991 aveva preso l’H iniziale, lo ha descritto così: ”Quando il playmaker mi lancia la palla, salto per prenderla. Il difensore sta aspettando che atterri perché ho saltato ma nel frattempo me ne sono già andato. I difensori dicono ‘Wow, è veloce’. Prima di atterrare, faccio la mia mossa. Quando salto, mi giro mentre atterro. Boom! Il difensore non può reagire perché sta ancora aspettando che atterri per difendermi. Ora deve reagire a quello scatto, quindi posso fare una finta e andare dall’altra parte per eseguire il gancio”.

Andarono da lui per impararlo con lezioni private anche Kobe Bryant e LeBron James. Del resto a lui aveva fruttato più di tremila stoppate e più di duemila palle rubate.


La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE