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Dettagli. Come il punto esatto dove scavare, l’anfratto quasi occultato dalle frasche. Posti difficili da scoprire a meno che qualcuno non dia precise indicazioni. Qualcuno che la sa lunga su quello che veniva tenuto nascosto con tanta cura per evitare sorprese dalla polizia.
E tanto che si parla soprattutto di armi, è l’ala militare che è finita nel mirino degli investigatori, e sono pochi quelli che hanno accesso a informazioni così rischiose, e non è raro che loro stessi abbiano le mani sporche dei più efferati delitti, perchè si sa che, nel crimine, il sangue è una prova da superare per guadagnare la stima e la fiducia dei veri pezzi da novanta.
Tutti ci devono passare, e a Melfi anche le pietre sanno dei morti che ancora gridano giustizia.
Questa è l’aria che da un po’ di giorni a questa parte tira dalle parti del castello di Federico.
Ma anche a Potenza il clima è quello dell’attesa prima di un grande evento.
Perchè l’oggetto degli accertamenti che si susseguono a ritmo incessante è una storia lunga vent’anni, da quando è esploso il conflitto tra i vecchi clan coi loro maggiorenti campani e calabresi, e un gruppo di emergenti in parte fuoriusciti o allontanati dagli altri, che si sono messi in testa di far per conto loro, prendendo in mano le redini del business della droga, imponendo con la forza il loro dominio, facendo correre un nome per tutta la regione che a sentirlo c’è ancora a chi viene un brivido sulla schiena.
Quinta mafia è il gergo dei sociologi curiosi.
Per estorcere i commercianti e incutere timore, anche agli eletti a entrare a far parte della nuova grande “famiglia”, hanno scelto di chiamarsi basilischi.
E a Melfi hanno trovato terreno fertile per coltivare le loro irrefrenabili ambizioni, perchè era tempo che i padrini cutoliani erano andati in pensione, eppure i loro referenti non avevano l’intenzione di cedere il passo.
C’erano i soldi degli appalti per la costruzione del nuovo stabilimento della Fiat, un’opera di interesse strategico per tutto il mezzogiorno finanziata anche coi soldi dello Stato. In quel periodo furono in tre a svanire come nel nulla, poi fu la volta dei corpi carbonizzati, almeno due nei primi anni novanta, e di Ofelio Antonio Cassotta nel ’96, all’epoca 24enne.
E dai Cassotta sono tornati i carabinieri la scorsa settimana perchè da allora anche i fratelli Marco Ugo e Bruno Augusto, sono caduti nella faida del melfese, e ancora non si sanno i nomi dei responsabili del loro assassinio.
I Cassotta erano diventati i referenti dei basilischi per tutta l’area nord della regione.
E l’ultimo fratello sta scontando una condanna all’ergastolo per l’omicidio di un cugino del boss del clan rivale, Giancarlo Tetta, freddato per vendicare l’omicidio di Marco Ugo.
Nel frattempo a Potenza moriva un poliziotto che aveva osato fermare alcuni di loro davanti a un circolo ricreativo per un controllo. L’anno dopo, il 29 aprile del ’97, si consumava uno dei crimini più efferati che si ricordi in città con l’agguato ai danni di Giuseppe Gianfredi, un personaggio molto discusso finito in un’inchiesta dell’antimafia per i contatti con esponenti dei vecchi clan.
I sicari fecero fuoco sull’auto dai due lati e colpirono a morte anche la moglie, mentre i due figli sul sedile di dietro restarono illesi per miracolo.
Nel corso delle indagini sono state percorse tutte le ipotesi immaginabili, e non sono mancate le false piste e gli arresti revocati dal Tribunale del riesame per mancanza di elementi certi.
Ma da tempo l’attenzione si è concentrata su di loro, i basilischi, colpiti duro a partire dal ’99 da una serie di operazioni della Dda, prima dai magistrati Felicia Genovese e Vincenzo Montemurro, e ultimamente Francesco Basentini.
Le attenzioni, anche a livello nazionale, fanno male per certe attività, così dai gesti clamorosi si passa a una stagione di relativa calma, a parte le tensioni interne al gruppo che per poco non scatevano una lotta intestina, fino al 2007.
A far riesplodere lo scontro con i rivali di sempre è un uomo appena uscito dal carcere, Gerardo Navazio, che aveva appena finito di scontare una condanna per reati passionali, ed era ritornato nella sua città natale, Melfi, dove si era avvicinato al “boss” dei Cassotta, Marco Ugo, che gli aveva offerto la sua amicizia.
Ma ancora per motivi passionali, stando alla sentenza di primo grado, Navazio ammazza un giovane di appena 22 anni, vicino agli uomini dell’altro clan.
Di lì la situazione precipita di colpo, e dopo un mese esatto viene trovato il corpo di Marco Ugo, crivellato dai colpi di pistola e bruciato in un casolare fuori città, come il fratello undici anni prima.
Per la sua morte è finito in carcere uno dei suoi uomini più fidati, Alessandro D’Amato, che avrebbe fatto da “specchietto” o “traghettatore” verso la sponda dove Cassotta ha incontrato il suo destino, così i detective gli danno il nome di “Caronte”, mentre gli esecutori materiali restano sconosciuti.
Il fratello di Marco Ugo, Massimo, non fa passare un anno e compie la sua vendetta.
Adesso deve scontare una pena lunga trent’anni, e a settembre del 2008 perde anche un altro fratello, Bruno, ucciso come gesto di ritorsione.
Da allora le armi tacciono, e qualcuno starebbe suggerendo agli inquirenti la maniera di liberarsene una volta per tutte.
Leo Amato

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