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La copertina di «Conversazioni radiofoniche» (ed. Universosud)

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L’infanzia, i modelli, la “Baracca rossa”, Firenze e Parigi. Pubblicate in Italia le interviste, andate in onda su Radio France a metà anni 50, che Gallimard stampò nel 1972. Una casa editrice indipendente lucana realizza il sogno che il poeta confessò al suo biografo

LA prima risposta suona come un endecasillabo: «Sono nato ad Alessandria d’Egitto». Poi può partire la prosa di una vita intera: in «una città che non fa più parte dell’oasi costituita dal Nilo», il «nulla» di un «tempo abolito» stimola l’immaginazione del bambino che diverrà poeta. Sono le confessioni di un Giuseppe Ungaretti 65enne già conscio del proprio seguito e della propria fortuna, parole che rilette oggi illuminano alcuni momenti della sua esistenza: il poeta le affidò a Jean Amrouche su Radio France tra il 1953 e il 1956 e, finora inedite in Italia, escono 45 anni dopo la pubblicazione per i tipi di Gallimard: è la casa editrice lucana Universosud a realizzare il desiderio che il poeta aveva più volte manifestato a Leone Piccioni, critico letterario, studioso e suo allievo, oltre che curatore del Meridiano Mondadori con “Tutte le poesie” (1969), “Vita di Ungaretti” (Rizzoli, 1979) e “Ungarettiana” (Vallecchi, 1980). 

Il titolo del libro – Piccioni ne firma la postfazione – è “Conversazioni radiofoniche” (anteprima il 29 settembre al Women’s Fiction Festival di Matera), versione italiana di “Propos improvisés”: l’opera, curata nel 1972 – due anni dopo la morte di Ungaretti – da Philippe Jaccottet, è stata tradotta dallo scrittore italo-algerino Hamza Zirem e da Filomena Calabrese con la prefazione di Valeria Sperti, docente di Letteratura francese all’Università di Napoli “Federico II” e all’Unibas.
Sono trascrizioni senza titolo, basta la numerazione progressiva priva anche di data come a rimarcarne l’a-temporalità, pagine dalle quali affiora un Ungaretti intimo, che non si tira indietro quando deve parlare del bimbo che frequenta il collegio di preti dove «uno degli istitutori m’incita un giorno a tenere il giornale della mia vita». Forse nasce tutto da lì.
La perdita del padre a due anni e le visite con la madre al «camposanto», l’infanzia al porto, vissuto come «il miraggio dell’Italia, di quel luogo impreciso e perdutamente amato per quanta notizia ne avessi dai racconti in famiglia»: spazio ancestrale che puntualmente tornerà nel titolo del primo libro, “Il porto sepolto”.

Emergono particolari della sua formazione umana ma anche poetica, in due piani che s’intrecciano spesso: dagli influssi della poesia araba («ha lasciato una traccia, e senza che nemmeno lo volessi e lo sapessi, ma non di colore. Quel vociare piano che torna, e torna a tornare, nel canto arabo, mi colpiva») ai modelli, Leopardi in primis, «sin dai quattordici, quindici anni». «Naturalmente, c’era Baudelaire». E poi Mallarmé: «Lo lessi con passione e, è probabile, non lo dovevo capire letteralmente; ma conta poco capire alla lettera la poesia: la sentivo. Mallarmé mi seduceva con la musica delle sue parole, con il segreto, quel segreto che mi è tutt’oggi segreto».

Alessandria è come uno sfondo sempre presente nei racconti in radio: «Altri luoghi d’Oriente possono avere le mille notti e una, Alessandria ha il deserto, ha la notte, ha il nulla, ha i miraggi». Ecco le prime frequentazioni politiche con il mercante-scrittore Enrico Pea e il variopinto gruppo della sua bottega, la “Baracca rossa” che immaginiamo come una comune ribelle popolata da «rivoluzionari che risiedevano in Alessandria, o vi si trovavano di passaggio. C’erano giovanotti della mia età e anche gente di età matura, che venivano da tutte le parti del mondo, Bulgari, Italiani, Francesi, Greci. Socialisti, anarchici».
In Italia, invece, Ungaretti si unisce al gruppo della “Voce”, rivista letteraria fiorentina «molto conosciuta in Francia»: le firme sono quelle di Croce, Salvemini, Papini, Soffici, Cecchi, Slataper, Saba «e vi collaborava anche il futuro presidente Einaudi». Sono storie di amicizie connotate da episodi anche minuti ma decisivi: «Prezzolini mi ha consegnato una lettera per Péguy, il primo scrittore che ho conosciuto al mio arrivo a Parigi». Nel suo negozio in via de la Sorbonne, ai Cahiers de la Quinzaine, incontrerà tra gli altri Georges Sorel.
Il romanzo di formazione del poeta sedimenta nelle conversazioni: le prime prose liriche e un sonetto scritto a 15 anni, le esperienze di critico letterario e traduttore di Poe, le collaborazioni con i giornali, la folgorazione per i dipinti di Masaccio pari solo a quella per Parigi, «fu la scoperta di un colore nuovo». «Parigi è ancora un miraggio. Lo era a quell’epoca per quanti intendevano, e diventavano, o speravano di diventare artisti, scrittori, o solo completarvi gli studi. (…) Ero venuto a Parigi soprattutto per ritrovarmi come uomo, per meglio riconoscermi come uomo, e quindi, per trovare più chiaramente la mia ispirazione, e frequentavo gli ambienti artistici, quelli dei giovani». Abita a due passi dalla Sorbona, assiste alle lezioni di Bergson su Spinoza, conosce i cubisti, Delaunay, Braque, Severini, incontra Modigliani e ritrova Soffici del gruppo della Voce, «una volta lo vedo passare con Picasso e Apollinaire». Scorrono i nomi che hanno fatto la storia artistica e letteraria del XX secolo.
In questa Parigi rutilante e gravida di esperienze, il ricordo del «nulla» egiziano resterà sempre presente, tanto che a una domanda di Amrouche su “Primo amore” – poesia che l’intervistatore crede riferita alla capitale francese – Ungaretti quasi sbotta: «Non è un ricordo parigino, è africano. È Alessandria. È un primo amore, verso i diciassette, diciotto anni, ma non è parigino. (…) È una poesia del ‘29 dettata dal ricordo. “Era una notte urbana …” Solo Alessandria è una città, eh?».
Ma ci sono Viareggio e Milano, non manca Roma e si affaccia il Brasile, quello triste e doloroso, però, dove nel 1939 trova la morte il figlio di 9 anni. Mancherà dunque la San Paolo della ritrovata passione amorosa: le conversazioni si fermano infatti 10 anni prima del “Dialogo” tra «Ungà» e la giovane poetessa italo-brasiliana Bruna Bianco, un epistolario oggi ricostruito nelle “Lettere a Bruna” (Mondadori, a cura di Silvio Ramat). «Peccato», scrive Piccioni quasi immaginando il fascino di una versione radiofonica del racconto di quell’atipico rapporto tra una ragazza neanche trentenne e il poeta-monumento in cerca, fino all’ultimo, di riempire il nulla del suo deserto con sempre nuovi miraggi.

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