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Renato Martorano

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Lucania Felix, il gup ridisegna la storia del clan Martorano tornato operativo nel 2005 ma le prime sentenze risalgono agli anni ‘90

POTENZA – Sarebbe tornato attivo nel 2005 il clan potentino capeggiato da Renato Martorano e Dorino Stefanutti. Otto anni dopo una prima stagione di piena operatività “mafiosa”, interrotta dagli arresti dell’operazione “Penelope”. Con una parentesi di “non mafiosità” nel mezzo, tra il 2000 e il 2004, sancita dalle sentenze che hanno smontato la maxi-inchiesta Iena2.

È una verità processuale complessa, difficilmente sovrapponibile a una verità storica dai tratti comunque sfuggenti, quella che emerge dalle motivazioni della sentenza con con cui a fine gennaio il gup Teresa Reggio ha condannato 8 dei 32 imputati nel processo principale nato dall’inchiesta sui nuovi affari del clan, soprannominata Lucania Felix, che avevano optato per il rito abbreviato. Con pene tra i 5 e i 12 anni abbondanti di reclusione, già scontati di un terzo per la scelta del rito abbreviato.

Il gup, infatti, si è detto convinto dell’esistenza di «un’associazione di stampo mafioso facente capo a Martorano Renato e Stefanutti Dorino Rocco, vertici indiscussi della stessa, operativa nel territorio di Potenza a partire dal 2005». Otto anni dopo, quindi, l’ultimo giorno “coperto” dalle condanne definitive per mafia scaturite dall’operazione “Penelope”, e soltanto qualche settimana più in là della maxi retata di novembre del 2004 dell’inchiesta Iena2, sconfessata a stretto giro da una serie di scarcerazioni decise dal Tribunale del riesame.

LUCANIA FELIX, LA STORIA DEL CLAN MARTORANO

Quello capeggiato da Martorano e Stefanutti, quindi, sarebbe stato: «Un gruppo verticisticamente organizzato che può contare anche su “concorrenti esterni” in grado di garantire, unitamente a taluno dei partecipi, circolarità e scambio di informazioni fra sodali detenuti e sodali liberi (ulteriore dimostrazione di saldezza e compattezza del sodalizio), nonché su concorrenti esterni in grado di offrire stabilmente ausilio nei più svariati settori, soprattutto attraverso la messa a disposizione di luoghi protetti di incontro e di svariati mezzi di trasporto idonei ad assicurare libertà di movimento ai sodali e a rendere quanto meno più difficoltosa l’attività captativa».

Il gup si è soffermato anche su «plurime condotte rilevanti alla stregua di “plateali ostentazioni pubbliche di mafiosità” con chiara valenza dimostrativa, intesa a rimarcare e rafforzare il ruolo egemonico e prepotente del clan».
In questo senso ha citato l’attività di recupero crediti, «attraverso la quale, il clan, oltre che accreditarsi sul territorio, ponendosi quale alternativa al sistema legale di recupero, si garantiva introiti, così ponendo in essere condotte sostanzialmente sintomatiche di volontà di sopraffazione». Ma anche «la sua capacità d’intimidazione e condizionamento» dimostrata dalla «manipolazione indiretta degli esiti processuali» e dal «controllo del mercato del lavoro».

GLI INTERESSI STRATEGICI DI INTERESSE DEL CLAN

Quanto ai «settori strategici di interesse del clan», in sentenza si distingue tra quelli «tradizionali» per un’organizzazione mafiosa come «videopoker, estorsioni, stupefacenti», e «non». Laddove questi ultimi andrebbero intesi in relazione a «realtà imprenditoriali con riferimento alle quali sono state sperimentate forme di vera e propria co-gestione, attraverso una peculiare ingerenza manageriale degli esponenti di spicco del clan».

Il tutto sempre con l’obiettivo di «garantire significativi introiti da utilizzare per il mantenimento dei sodali in vinculis e delle loro famiglie nonché per il pagamento delle spese legali anche attraverso la gestione della cassa comune».

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