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Pietro Ingrao a Reggio Calabria nel 1980

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«ERANO gli anni della Resistenza. Avevano appena arrestato Aldo Natoli e alcuni altri antifascisti del gruppo romano; mio padre si apprestava a fuggire, ma prima di farlo si dichiarò a mia madre. Il loro era un addio, non sapevano se si sarebbero mai più rivisti, se la Storia li avrebbe divisi per sempre». Chiara Ingrao, figlia di Pietro e di Laura Lombardo Radice, oggi, 25 aprile, festeggia il suo 74esimo anno di età. Frutto dell’amore che ha vinto la guerra, la politica, sindacalista e scrittrice è nata nel giorno della libertà, nella giornata della Liberazione per cui i suoi genitori si sono strenuamente battuti.

Al Quotidiano del Sud Ingrao racconta i giorni “calabresi” di suo padre, quelli del 1943, tra i mesi di marzo e luglio, in cui il giovane poeta “prestato” alla politica e futura memoria storica della Sinistra, si nasconde a Pedace, in provincia di Cosenza, grazie ai dirigenti locali del Pci che alla comunità intimano di lasciare in pace quel Pietro che, proprio per sfuggire ai fascisti, si finge studente reduce da un esaurimento nervoso. Tantissimi i particolari di questa storia, gli aneddoti – rintracciabili nella stessa biografia del leader comunista, Volevo la luna (Einaudi, 2006), ma anche in numerosi altri volumi, come Su due piedi, edito da Rubbettino, di Giuliano Santoro, e Storia del peperoncino, pubblicato da Donzelli e scritto da Vito Teti -; aneddoti che pure fanno emergere il forte legame tra Pietro Ingrao e la Calabria.

La pasta e patate mangiata quasi tutti i giorni, il peperoncino a cui il giovane antifascista non ha il coraggio di dire «no», i momenti di solitudine, il ricordo – grazie ai boschi silani a cui molto probabilmente si ispirò Dumas per la sua Sherwood – di Lenola, borgo d’origine del partigiano, in provincia di Latina. I giorni del “nascondimento” in Calabria, i giorni della lontananza da Roma. Suo padre Pietro glieli descrisse? E se sì in che modo?

«Certo che sì. Per me e i miei fratelli si tratta delle storie con cui siamo cresciuti. Ricordo ancora l’impressione che mi faceva il racconto dei topi che salivano sul letto di mio padre, nella casetta in cui era nascosto tra i boschi della Sila. Ci diceva che per farli scappare era necessario accendere il fuoco e, così, io ho sempre pensato che lo stare nascosti dai fascisti equivalesse ad avere i topi sul letto. Tra l’altro, per l’uscita nel 2012 del documentario Non mi avete convinto di Filippo Vendemmiati, io e mia sorella siamo giunte in Calabria: abbiamo visitato i luoghi in cui nostro padre si nascose a Pedace, in località Pratopiano, grazie a Cesare Curcio che aiutò, per l’appunto, papà in quei mesi. La sua casetta (era un capanno utilizzato per essiccare le castagne), la brandina, la scodella, la fontana verso cui si recava per riempire le bottiglie d’acqua: tutto ancora intatto, custodito come in una sorta di museo. Una visita emozionante, che si è intrecciata alla nostra memoria di bambine. È poi altrettanto emozionante pensare che Pratopiano, in epoche diverse, sia stata attraversata anche dal brigante Pietro Monaco e dall’abate Gioacchino da Fiore: è come se forme differenti di lotta per la libertà si fossero intrecciate».

A Pedace suo padre conosce anche i braccianti della Sila e nei suoi scritti racconta di essersi sentito a casa, pensando alla gente di Lenola.

«Assolutamente sì, la sua prima presa di coscienza fu vedere, nel suo paese d’origine, la differenza che intercorreva tra lui, figlio di signori, e la vita dei contadini. Credo che quella disuguaglianza lo stimolò all’impegno, a fare qualcosa. Tra l’altro, proprio sull’occupazione delle terre in Calabria vertevano le sue prime inchieste giornalistiche».

Un legame forte, dicevamo, quindi, quello tra Pietro Ingrao e la Punta dello Stivale.

«Sì, durante la Resistenza fuggì prima a Milano, poi a Cosenza dove fu ospite in una casa in cui – ricordo solo questo particolare – circolavano i libri di stampo marxista e, quindi, poté fare diverse letture, e poi appunto a Pedace. Ritornò in Calabria nel 1949 dopo la tragedia di Melissa e poi nel 1970 durante la rivolta di Reggio. In più scelse di rappresentare i calabresi in Parlamento, come deputato».

E lei invece che rapporto ha con questa terra?

«Io ci sono tornata nel 2014, quando ho pubblicato un libro per bambini, Habiba la magica, con Coccole Books, casa editrice di Belvedere Marittimo, nel Cosentino. Esperienza bellissima, che ha anche fatto sì che portassi questa storia, su una bambina nata a Roma e di origini africane, in moltissime scuole calabresi. Sa, ho faticato a trovare un editore interessato alla pubblicazione, visti i temi spinosi; ma il fatto di avere, alla fine, trovato un editore dalla così spiccata sensibilità qui in Calabria, mi fa ancora pensare che la strada della libertà porti sempre nel posto giusto».

E a proposito di libri, Baldini+Castoldi ha riedito Il resto è silenzio, che affronta, attraverso il punto di vista femminile, le guerre di ieri e le guerre di oggi. Un romanzo in cui le donne resistono.

«Lo presenterò a Mendicino, sempre in provincia di Cosenza, nel mese di maggio. È una storia di resistenza e le donne sì, hanno sempre combattuto per la libertà. Mia madre ne è un esempio: nell’ambito della Resistenza svolse una “funzione di legalità” e, cioè, non scontri a fuoco, ma disubbidienza civile e azioni di boicottaggio, stampa clandestina e scioperi, assistenza ai perseguitati. Era presente al brutale assassinio di Teresa Gullace, che ispirò Anna Magnani in Roma città aperta, e le sue storie di antifascismo e lotta le ha sempre portate come testimonianza nelle scuole: questa è una cosa importantissima».

Sempre ne Il resto è silenzio si parla di accoglienza rispetto a chi viene da lontano. La “resistenza”, oggi, è anche quella dei migranti e di chi cerca di tutelare i loro diritti.

«Certo, e il primo passo per resistere è sostenere il lavoro delle Ong, opponendosi alla decisione assassina di far morire le persone in mare. Ma questo non basta, c’è bisogno di lottare contro la costruzione cinica del cinismo, contro la volontà di abituare la gente a odiare, a essere indifferenti. Le conseguenze dell’odio sono terribili. E la Storia lo ha già dimostrato».

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