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Allevamento di lumache a Scalea

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Cosa lega il «mangiare il territorio» (Italo Calvino) alle storie di giovanissimi che hanno investito tutto sulla terra

COSENZA – «Il miglior modo per conoscere un territorio è introitarne il suo cibo o, ancor meglio,  mangiare il territorio» avvertiva Italo Calvino (“Sotto il sole giaguaro”). Mario Soldati si spingeva ancora oltre: «Un popolo lo si conosce se si frequenta le sue cucine».

Mangiare il territorio calabrese o frequentarne le cucine, benché a distanza, è una scelta che da anni viene praticata anche fuori dai nostri confini, con sempre più consapevolezza e non soltanto nelle numerose comunità di emigranti sparse per il mondo.

Se dici Calabria pensi subito alla cipolla di Tropea e alla ‘nduja di Spilinga, al pomodoro di Belmonte e al tartufo di Pizzo, alla liquirizia di Rossano e alla patata della Sila, al peperoncino che vanta anche un’Accademia (ma per il 70% è importato) e al Cirò. Per non parlare del Suino nero o della Podolica, delle aziende di olio d’oliva (la Calabria è il secondo produttore d’Italia, con 3 diverse Dop) o di veri e propri distretti come quello dello stocco a Mammola e Cittanova, e poi i dolci tipici (torroni) e le paste fatte in casa (fileja) o i formaggi, dal caciocavallo silano al pecorino del Monte Poro.

Ma dai vini ai prodotti della terra, la biodiversità della punta dello Stivale bagnata da 800 km di costa e fatta di montagne profonde o piane rigogliose offre materie prime inattese. E spesso fornisce un assist a giovanissimi imprenditori fedeli al motto petriniano “Buono, pulito e giusto”. Un ambiente sano che dà modo anche di riscattare  l’immagine di un binomio agricoltura-Calabria legato a truffe nei finanziamenti europei, caporalato e falsi braccianti. 

La dieta mediterranea di Ancel Keys ha origine a Nicotera

Ci sono piccoli presìdi legati al territorio e, a parte quelli già citati divenuti brand nazionale, talvolta noti solo laddove hanno sede: dalla cipolla bianca di Castrovillari all’arancia di Villa San Giuseppe (frazione del Reggino tra le vallate delle fiumare Gallico e Catona)
 o al “Biondo tardivo”, suo parente di Trebisacce (frutto della tarda primavera calabrese che omaggia i tempi slow di una regione che nel suo dialetto non ha il futuro), dal fagiolo di Caria al finocchio di Isola Capo Rizzuto, dalla “merendella”, varietà di nettarina coltivata in un piccolo areale della Calabria centrale, fino ai funghi di Giffone.

Per non parlare dei microbirrifici artigianali sempre più “macro” o, tornando al vino, del lavoro che da almeno un lustro si sta facendo con la Dop «Terre di Cosenza»: esempio di comunicazione integrata e soprattutto di spirito di collaborazione tra una cinquantina di produttori (consorziarsi in una regione in cui spesso c’è la tendenza a sentirsi numeri 1 non è mica facile…). Menzione a parte per Stefano Caccavari e la sua start up da esportazione  sul recupero dei grani antichi: dal Catanzarese alla Puglia alla Toscana e presto in Francia, un’intuizione che festeggia in questi giorni due anni di vita, una start-up nata con la raccolta fondi sul web e, oggi, srl (Mulinum) con oltre 200 soci. 

LA MENZIONE DEL NYT E LA VETRINA DI «FICO»
Disconoscere eccellenze e nicchie è spesso un fatto di (scarsa) comunicazione, mentre altre volte sono proprio i media a creare il fenomeno: se il 2017 è stato l’anno della menzione del New York Times per la Calabria come unica tappa italiana da visitare – anche per il valore della sua cucina –, in questo 2018 anno del cibo italiano nel mondo la nostra regione ha una nuova vetrina per i prodotti locali, a Bologna: «Fico» Eataly World, acronimo di «Fabbrica italiana contadina», ultima creatura di Oscar Farinetti nel più grande parco agricolo del mondo. La Calabria è presente con quattro maestosi ulivi secolari donati e subito posizionati in maniera permanente ai quattro ingressi principali dell’immenso padiglione. È come vedere finalmente riconosciuti i pilastri della dieta mediterranea, la stessa che collega a Nicotera il suo ideatore e teorico Ancel Keys e vanta, dallo scorso ottobre, una legge ad hoc per la sua valorizzazione (3 milioni in 3 anni e la promessa di un festival a tema, proprio nel centro del Vibonese).

New York continua a celebrare il gusto calabrese

Non solo: nell’anno che il MiBact ha voluto dedicare al turismo enogastronomico, la Calabria è stata invitata per la seconda volta al New York Times Travel Show di Manhattan ed è appena stata sancita – e officiata da Lidia Bastianich – la partnership tra Regione ed Eataly Usa: nei ristoranti a marchio si potranno gustare i piatti calabresi, mentre nei due store Eataly di New York (Flatiron e l’Oculus calatraviano dell’One World Trade Center) ma anche a Chicago, Boston e Los Angeles si metteranno in mostra oltre 80 prodotti calabresi, usati anche nelle scuole di cucina e negli show cooking in cui la Bastianich è autorità riconosciuta. La luna di miele tra l’Italia e la Grande Mela è sancita in questi giorni dalla pubblicazione, sempre sul Nyt, di un articolo per la prima volta in lingua italiana, dedicato guarda caso a un territorio e al suo vino: il Chianti. 

DAL «PANICUOTTU» AL GOJI: TRA ANTICO E FUTURO
Una prima idea della grande varietà calabrese si ha scorrendo l’elenco Pat (prodotti agroalimentari tradizionali) del Mipaaf: 268 tra prodotti tipici e preparazioni ottenute secondo regole protratte nel tempo per almeno 25 anni e dunque certificate dal Ministero. Spiccano chicche come il brodo pieno o «panicuottu» (a metà strada fra la «stracciatella» romana e i passatelli romagnoli): composto di uova sbattute, prezzemolo, pane raffermo e formaggio grattugiato versato nel brodo bollente, in alcune varianti anche pomodori pelati.

È la grande bellezza della tavola contaminata e globalizzata che oggi porta nel nostro piatto – ma anche nella grande distribuzione italiana – produzioni calabresi al 100% eppure inaspettate: su tutte, il «goji italiano» che la Calabria condivide con altre 4 regioni (Sicilia, Basilicata, Puglia e Lazio). La bacca dalle virtù nutraceutiche cresce grazie a un clima che permette di coltivarla per almeno 6 mesi l’anno: a settembre i 10 centimetri di piantina innestata (in realtà si tratta di talea) a giugno raggiungono i 2 metri e 40, e in zone come la Piana di Gioia Tauro si stanno riconvertendo le coltivazioni di kiwi affette da virus.

È possibile abbozzare una top 15, con la premessa che è parziale e aggiornabile all’infinito, in base ai gusti o “scoperte” sempre nuove…

L’ABC DELL’ECCELLENZA MENO CONOSCIUTA
Tra i prodotti favoriti dal clima non può mancare l’annona, frutto esotico che matura da fine settembre a Natale solo a Reggio e dintorni: ibrido per eccellenza (profumo tropicale di banana-fragola-ananas e forma mista mela-pompelmo-pera) racconta la Calabria come poche altre cose.  

Il bergamotto, utilizzato in cosmetica nei profumi, ha da poco un nuovo protagonismo anche nei succhi naturali: tre aziende agricole forniscono gli agrumi che vengono trasformati con il marchio naturale Aran-c. Giuseppe Piccolo, giovane commercialista della Locride, dopo la laurea in economia aziendale all’Unical e altri studi a Londra e a Napoli, 5 anni fa ha scelto la strada dell’agricoltura a km0. A Vadue di Carolei (Cosenza) il suo sogno è diventato realtà imprenditoriale: cinque gusti (arancia, bergamotto dolce e amaro, limone dolce e amaro, ace e mandarino) per una spremuta al 100% biologica e Igp e quasi 50mila litri di succo trasformati per ogni referenza. Gli utili – spiega Piccolo – sono stati investiti in ricerca e sviluppo già dal primo anno.

Rimanendo in territorio agrumi ecco il cedro, simbolo di Libano e Israele ma con caratteristiche solo calabresi: quello dell’alto Tirreno cosentino è venduto al doppio per la bassa produzione legata alla siccità. Sulla costa opposta, quella jonica, c’è la Clementina della Piana di Sibari. 

DOTTATI, FEMMINELLI E POVERELLI
Ancora frutta e ancora nel Cosentino: il fico dottato, Dop dal 2011 e da 15 anni con alle spalle un Consorzio e un’Associazione, è un simbolo che riporta al logo di Expo2015 oltre che al «Fico» inaugurato a Bologna a metà novembre.

Cosa  lega il limone Igp di Rocca Imperiale e il prosciutto San Daniele

Scorrendo nel territorio bruzio si trovano poi il fagiolo poverello di Laino e il limone “femminello” di Rocca Imperiale (Cosenza), Igp dal 2012 e titolare di un riconoscimento monocomunale concesso in Italia solo a icone assoluto del gusto come il prosciutto San Daniele: anche qui attivo il Consorzio (dal 2001), più di 200mila quintali annui commercializzati grazie all’apporto di oltre 100 produttori.

LE LUMACHE PER GLI CHEF STELLATI E IL MATE
Forse non tutti sanno che Scalea sta iniziando a farsi un nome legato alle lumache: due ragazzi curano con amore i 5 ettari per le loro “helix muller” scelte dagli chef piemontesi e lombardi come gli stellati Davide Palluda, Felix Lobasso e Vittorio Fusari. Lumache calabresi anziché di Caserta o Cherasco, richieste non solo da Milano e Cuneo ma fino in Olanda e presentate, oltre che apprezzate, lo scorso mese d’ottobre nella Francia patria del’«escargot». La produzione va dal “Calù” (caviale di lumaca) ai prodotti cosmetici con la bava, 100% naturali. Anche in questo caso, come per goji e annona, il clima è il fattore più determinante nel successo della produzione. «La scelta dell’allevamento all’aperto – spiegano Francesco Di Deco e Giuseppe Maisto, giovani menti e braccia della Società agricola Lumache&derivati –, si è notevolmente differenziata dall’impostazione dell’elicicoltura negli altri Paesi europei come la Francia e la Spagna, rispettivamente al primo e secondo posto per consumo di “lumache da gastronomia”».  

A sorpresa spuntano tartufi (non il gelato di Pizzo), lumache, mate…

Alla lettera M troviamo il miele ma anche il mate, l’erba che a Lungro (Calabria arbereshe) fu introdotta dai primi emigranti in Argentina tra fine ‘800 e inizi ‘900. Tra gli albanesi del Cosentino è un rito al pari del caffè.

L’OLIVA OLTRE L’OLIO: LIQUORI E CREME
Anche sulle olive calabresi i più giovani studiano da anni nuovi prodotti e utilizzi: dall’Ulivar (l’amaro di Luigi Adinolfi e della sorella Lucrezia è stato nel 2012 il primo Oscar Green calabrese) alle creme spalmabili di Lea Corigliano, anche lei premiata da Coldiretti due anni dopo per la Cremolia: crema di nocciola, mandorla o pistacchio con il 22% di olio extravergine bio – qui l’olio di palma è bandito, come i conservanti –, il 40% di frutta secca e appena il 5% di zucchero; nell’azienda del Vibonese fondata un secolo fa dal bisnonno Domenico, Lea produce anche il pesto di mandorle (80% di materia prima) molto richiesto anche nella ristorazione.

Alla P ecco il peperone di Roggiano, apprezzato soprattutto nell’hinterland cosentino ma che forse meriterebbe una migliore comunicazione, e il Pecorello, vitigno riscoperto e ancestrale quanto la Trifera: a Ferruzzano (nel Reggino) si vendemmia tre volte l’anno (a fine settembre, a metà dicembre e a metà luglio), ma forse la radice -tre del suo nome deriva dal particolare grappolo di tre colori; alcuni fanno risalire all’Egitto l’origine di questa varietà di cui parla già Plinio il Vecchio.  

Nuovissime invece le prospettive del tartufo calabrese, da non intendersi soltanto come il pur apprezzatissimo e ben più noto gelato di Pizzo: nella Saracena capitale del Moscato al governo, da poco entrata nel circolo delle Città del tartufo, trionfa la varietà uncinato nero o scorzone presente in tutta la dorsale appenninica. Il Pollino ne è ricchissimo (soprattutto Novacco), così come l’Orsomarso, ma anche il Reventino. Certo, c’è chi preferisce una bella insalata di porcini o un risotto, magari con i preziosi chicchi della Sibaritide: basta scegliere. La forza della Calabria a tavola, forse, sta tutta qui.

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