X
<
>

Emanuele Giacoia

Condividi:
7 minuti per la lettura

Un anno senza Emanuele Giacoia, giornalista e gentiluomo, e l’eredità di un padre come lui… Sono passati dodici mesi dalla sua scomparsa

Da un anno è iniziata una lunga stagione delle piogge, della quale ancora non si vede la fine. Come in certi sogni, affacciati su una piccola apocalisse, il più doloroso e complicato degli scenari, quando vaghi nella notte tra teatri, giostre, autoscontri, negozi di giocattoli chiusi, città vuote, pistole che non sparano, piedi che non corrono. Ma è anche una crepa perfetta, “verticale”, come ha scritto Massimo Recalcati a proposito della parola poetica, “come quello che Fontana imprime sulla tela”.

La morte di mio padre, Emanuele Giacoia, il Giornalista con la maiuscola e l’uomo con la minuscola per “umiltà e bontà soprannaturali” come diceva il medico di famiglia quando arrivava a casa, con tutto ciò che andiamo trovando nella valigia che ci ha lasciato, con dentro pensieri, gesti, la sua voce, le bizzarrie, i vezzi e quei lunghissimi silenzi durante la malattia, è una lirica che ha impresso sulla nostra intima tela quel “taglio netto che apre alla possibilità di una nuova percezione delle cose”. Riguarda, questa, la sua vita, e la sua eredità di uomo prima e di professionista dopo. Delle quali, e questo è il grande dono quotidiano, ci andiamo via via rendendo conto oggi che non c’è più.

Lui era un uomo, nel senso più alto. Di persona che cammina sulla terra e non abbassa, né mai volta lo sguardo fingendo di non vedere e sentire. Soltanto così ha potuto essere quel giornalista che è stato. Sedeva allo stesso tavolo con l’autista della Rai, col contadino che di mattina presto bussava alla porta con le uova fresche e un pezzo di guanciale, col fruttivendolo che aveva le mani sporche di fatica, col muratore che alzò un muro con la precisione di Archimede e gli occhi tristi e dignitosi, col postino che anche d’inverno tutto sudato consegnava le raccomandate, col carabiniere tutte le volte mortificato per l’ennesima notifica del tribunale in merito a qualche denuncia per diffamazione a mezzo stampa finché è stato direttore responsabile di questo giornale.

Preferiva gli ultimi, senza tanti giri di parole attorno a questo termine certamente abusato, perché gli piacevano assai, perché quella era l’umanità con cui davvero confrontarsi e non perché fosse un dovere d’etichetta morale verso chi era meno colto e “importante” (che convenzione banale, che finzione secondo la logica del profitto di questo mondo). Ha insegnato plasticamente che chinarsi è l’unica operazione da fare per cambiare il mondo: ascoltare, scrutare oltre le sembianze, successivamente partecipare, tentare soluzioni, dunque una rotta per un nuovo cammino per quanti non ne abbiano o non ce la fanno, percepire il talento e, per chi non lo abbia, cucirgliene uno addosso.

Mio padre nobilitava tutto, negli altri, nelle cose. Chiunque aveva qualcosa di interessante da dirci, e qualsiasi cosa, animata o no, aveva qualcosa da darci. Fosse il presidente della Repubblica o il presidente del circolo dei nativi non digitali o degli amanti del cocco sulla pizza. Fosse una pietra, un pesce, un copertone buttato in un angolo di strada (“guarda, sembrano una scultura, un’installazione”), come tante donne e uomini lo sono.

Perciò anche le dolci bugie nei suoi leggendari racconti restano come centinaia di pezzetti di libri da cui apprendere: un ragno calante da una lampadina mangiato da un uomo durante uno dei suoi reportage in giro per la Calabria “perché – citava, e con convinzione, un mito che è stato sepolto con lui, di cui non sapremo mai fino in fondo (ed è assai bello così) – tanto sempre carne è”, la polvere soffiata via da una tazzina di caffè offerto da una donna di un perduto paese dell’Aspromonte, un lupo mannaro che lo inseguì fin dentro a un portone.

Era, il favoleggiato mostro, tra i ragazzi più dolci e sofferenti di Capua, nel Casertano, dove conobbe Pietra Volpe (forse per questo era fissato con la materia esanime, avendone amato una, di pietra, in carne e ossa). Mia, nostra madre. Quei due, i ragazzi più belli della città di Ettore Fieramosca. Non è una frase preconfezionata, era proprio così.

Ancora oggi i sopravvissuti di quel tempo lo ripetono come un mantra in ogni occasione nei nostri incontri, ormai sempre più rarefatti, in quella città misteriosa e profumata di storia a ogni angolo. Si confrontavano sui “cazzetti” (i peni) romani del museo archeologico (bellissimo), su Mina o su “La bambola” di Patty Pravo, su Leopardi o Hesse. Pietra era spietata, ma lo faceva apposta per smuovere quella montagna incantata, lui, che durante queste sfide continuava a leggere il quotidiano, attirandolo in un litigio che poi terminasse in un abbraccio: “Voi giornalisti conoscete soltanto i titoli, ma dentro ai libri non avete mai scavato”, diceva.

Ci riusciva, perché lui andava in bestia. “Avete scavato voi insegnanti sì…”, sbottava, arrotolando i paginoni della Gazzetta dello Sport o del Corriere, accendendo una sigaretta per non andare oltre, uscendo sull’amato balconcino della cucina. La verità vera è che aveva grande rispetto per lei, e per la sua categoria. Per tutte le categorie, ma specialmente per le lavoratrici, che fossero in fabbrica o alla catena di montaggio casalinga.

Era un uomo pieno di garbo e attenzione anche alle virgole altrui, ecco perché. Per esempio mai avrebbe partecipato allo sport della critica tout court o, peggio, del dileggio nei confronti di qualcuno, nemmeno di una foglia di basilico, figuriamoci di una persona. Sarebbe addolorato nell’assistere all’attacco spaventoso post mortem, che rispecchia ciò che siamo diventati, contro Michela Murgia. Non conosceva l’invidia, come tanti di quelli che oggi si esprimono, per bile appunto, contro la scrittrice sarda morta per cancro che tanto ha dato anche al di fuori della letteratura.

Per lui l’umanità intera era sacra. Leggeva tutto, tutti. Avrebbe telefonato per complimentarsi, o magari muovere qualche (sempre puntuale) critica, anche a Marcel Proust se ne avesse avuto la possibilità, come faceva con gli amici per un bigliettino di Natale o con i colleghi per un pezzo letto da qualche parte. Intesseva ragionamenti con tutti, fosse anche con chi rispondeva a un centralino e chiedeva di avere pazienza per l’attesa.

Non è la santificazione di un padre, ma la realtà dei fatti. Sono abituato a verificare, perché vengo da una scuola antica, nonostante non sia nemmeno troppo vecchio. E questi sono fatti ampiamente verificati.

La sua eredità è viva, indica, insegna; i suoi esempi, fatti anche di una sola parola o di necessari silenzi, illuminano giorno per giorno, seppure nell’assenza di quel lumicino acceso giorno e notte col suo profilo immerso in una lettura. Da mio padre ho imparato l’uso umano del citofono. Non c’è da scherzare. Quando pigiava lui era come una carezza, appena sfiorava il tasto per non disturbare. Ecco, non disturbare è stato il credo della sua vita. Non disturbare il prossimo dovrebbe essere il credo di ciascuno. Il citofono lambito potrebbe stare nel simbolo di un nuovo partito di ricostruzione da Dopoguerra.

Non è la terza, e forse definitiva, guerra mondiale quella che viviamo nei rapporti che abbiamo con tutti? Se ti incrociava in ascensore papà era capace, da sconosciuto, di chiederti che cosa avessi sognato quella notte. La gente impazziva, e restava irretita da quella voce. Guariva, andava al lavoro più contenta. Il suo scopo era esattamente quello. Impensabile, ma vero. Si abbassava. Ricordo una partita di pallone a Moschetta, una frazioncina di Locri, quando un anno andammo in vacanza lì.

Lui lì in mezzo ad amici last minute di Torino, increduli nel vederlo arrancare nonostante il pancione pieno di fichi d’India appena ingoiati quasi senza masticare. Sono anni lontani, pieni di luce, di azzurro, di poesia. Anche col fischietto tra le labbra fece poesia di abbassamento, qualche anno indietro all’episodio di Moschetta. Decise di entrare in campo, al mitico “stadio” dell’ippodromo di Soverato, a fare l’arbitro di una partita tra ragazzi e tra lo stupore generale.

Nessuno seguiva le azioni di gioco, ma tutti stavano con lo sguardo fisso su “quello di Novantesimo minuto”. Tutti si sentirono importanti, anche le riserve, anche i portieri che beccarono innumerevoli gol, in quel pomeriggio particolare, sorridendo come se avessero vinto al Totocalcio. Era un pomeriggio d’agosto e di fuoco. Quel fuoco che oltre la fiamma resta ancora, scrisse alla soglia dei quarant’anni Mario Luzi, tentando un bilancio della vita. Leggo due versi più su: “E detto questo posso incamminarmi/spedito tra l’eterna compresenza/del tutto nella vita e nella morte”. Nonostante l’assenza, dolorosissima, nostro padre, ecco, il nostro collega e amico (inteso per tutti), è eternamente compresente.giacoia

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE