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Saverio La Ruina in scena

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«STUPORE. Quello che provo è stupore». Saverio La Ruina è tra i pochi autori calabresi messi in scena all’estero. Un made in Calabria da esportazione. Al di là delle Alpi (e dell’oceano), l’interesse per i suoi testi diventa sempre più forte. Lui stesso fa fatica a star dietro agli spettacoli.

«Ho visto due rappresentazioni diverse di La Borto e una lettura di Valerie Dreville, un’attrice francese bravissima. In Francia hanno messo in scena anche Dissonorata e Italianesi. Poi hanno rappresentato Polvere in Messico, in Venezuela e negli Usa. In Belgio invece è toccato a Masculu e fimmina».

E lo stupore, di cui parlavamo all’inizio, è quello che La Ruina prova nel vedere i propri lavori rappresentati in posti così lontani e culturalmente diversi. «Stupore, sì. Perché storie come Dissonorata o La Borto sono realmente storie nate tra i borghi di Castrovillari. E’ incredibile che possano interessare così tanto e così lontano».

Non se lo aspettava?

«Le racconto una cosa. Ero in Lussemburgo, alla prima di La Borto. Ero in platea e vicino a me c’erano signore che piangevano».

Cosa insegnano reazioni di questo tipo?

«Che se becchi l’autenticità di una storia, di un sentimento, non importa dove questa sia nata. Funziona nel vicolo come nei boulevard. Funziona dappertutto».

Dissonorata e La Borto raccontano storie al femminile, però. Come ha fatto a descrivere questo tipo di sensibilità così bene?

«Ne sono rimasto sorpreso. Me lo hanno fatto notare le donne. In tante a fine spettacolo vengono e mi chiedono: “come hai fatto a dire queste cose così intime?”. In Polvere la stessa cosa, da Pordenone a Caltanissetta. Qualcuna è arrivata pure a chiedermi se l’avessi spiata dal buco della serratura. C’è qualcosa di misterioso, che evidentemente riesce a creare questa intimità, questa empatia forte col pubblico, in particolare nei monologhi».

A questo punto è facile prevedere una versione all’estero di “Mario e Saleh”, spettacolo che ha avuto una gestazione un po’ complicata. Sorpreso anche da questo?

«Sì. O meglio, che c’era una materia viva, che si toccavano corde individuali particolari, lo avevo capito. Ma mi ha sorpreso che i problemi siano arrivati dopo, a testo chiuso, come si dice».

VIDEO – SAVERIO LA RUINA E LO SPETTACOLO “MARIO E SALEH”

Dopo le due repliche di Cosenza il peggio sembra passato. Ci racconta invece le difficoltà che hanno preceduto e seguito il debutto?

«Il mio obiettivo era creare un noi e loro. E accanto al mio personaggio, che parla per luoghi comuni, ho cercato un attore che avesse origini arabe, non nero, e che fosse musulmano. Perché volevo raccontare quanto poco noi occidentali sappiamo entrare nella spiritualità di un musulmano o quanto poco sappiamo di come loro vivono la spiritualità, e quanto tutto questo sia doloroso per loro».

Soddisfatto?

«Assolutamente sì. Era quello che cercavo. Sapevo di entrare in un territorio pericoloso e lo volevo. Certo, non avevo calcolato tutto quello che poteva succedere. Ma si sente qualcosa, si percepisce che quello lì sul palco non è solo un personaggio. C’è una densità maggiore e mi piace che ci sia. Questo spettacolo con un altro tipo di attore non avrebbe la stessa forza».

Si dice che il teatro non dia risposte ma che serva a suscitare domande. Questo, invece, è uno spettacolo che dà delle risposte secondo lei?

«Una forse sì. Non alla soluzione del problema ma almeno a come porsi davanti al problema. La conoscenza è una strada necessaria. Il muro contro muro, invece, non porta a nulla. Anzi, porta solo alla guerra».

Dove l’ha trovata l’ispirazione per questo spettacolo?

«Su un traghetto tra Reggio e Messina qualche giorno dopo l’attacco al Bataclan. Era affollatissimo, d’estate, tantissima gente accalcata. Ad un certo punto si siedono vicino a me tre ragazzi arabi. Ho pensato: e se succede qualcosa? E qualcosa dal mio sguardo è trapelato e qualche sguardo di rimando l’ho avuto. Ma quanta violenza c’è in un atteggiamento del genere? I terroristi quanti saranno? Esagerando, 30mila? I musulmani sono 1 miliardo e 600milioni. Gente che non ha nessuna colpa e che prende la distanze dal terrorismo, anche perché vive la religione come una religione di pace, come lo sono tutte le religioni, e poi perché nel Corano c’è tanto di pace, di fratellanza. E soffre per come questa religione viene adoperata e per il pregiudizio che subiscono».

Lei si sente cambiato?

«Quel pensiero lì non lo avrei più. Dopo aver studiato ho capito quanta parte buona e rispettosa c’è nel mondo islamico. Purtroppo in tv si vede solo la parte violenta».

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